Continua la nostra storia del miele. Da unico e prezioso dolcificante dell’età antica a comprimario dello zucchero, il miele ha dovuto reinventarsi, aumentando la propria qualità e valorizzando le sue caratteristiche di prodotto territoriale.
Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, anche il miele visse il suo particolare “Medioevo”: se da un lato esso veniva ancora considerato un alimento prezioso e ricercato, dall’altro dovette affrontare un periodo di crisi, derivato dal fatto che il lavoro apistico non subì per secoli nessuna innovazione di sorta. Nel millennio che va dal V al XV secolo, l’unico documento politico rinvenuto inerente al miele è il Capitolare de Villis emanato nel 759 da Carlo Magno secondo il quale chiunque avesse un podere doveva tenere anche api e preparare miele e idromele; chi fosse stato sorpreso a rubare miele coltivato era punibile con multe di varie entità, chi invece avesse trovato un favo abbandonato ne diventava proprietario.
Il Medioevo considerava il miele un bene prezioso, con pene e sanzioni per chi lo rubava o tralasciava di allevare le api di un proprio podere
RINASCIMENTO DI DOLCEZZA
Presso le aristocrazie europee del periodo rinascimentale, in termini di gusto, la dolcificazione, ignorata nell’Età di Mezzo che preferiva concentrarsi sulle spezie piccanti, divenne una vera e propria moda. Si preparavano intingoli dai sapori ibridi, che pervadevano l’intera sequenza delle portate di un pasto, divenuto, per arditezza di afrori e ricchezza di colori, un evento spettacolare, destinato a stupire più che a nutrire.
I sapori originari dei cibi venivano pressoché coperti e solo nel XVI secolo si arrivò a una separazione dei gusti, rinviando il dolce alla fine del banchetto. Il miele continuò ad essere utilizzato in medicina, soprattutto nell’ambito delle scienze galeniche, secondo le quali il corpo umano è costituito di un insieme di umori a cui sono associate le qualità fondamentali di caldo, freddo, secco e umido, che ciascuno deve tenere in equilibrio: al miele venivano attribuite la caratteristiche del caldo e del secco, adatte, per contrasto, a persone dal segno zodiacale d’acqua.
Secondo la filosofia galenica (dal medico e filosofo Galeno, 129-201 d.C.) i segni d’acqua assiderati dalle qualità del freddo e dell’umido e di temperamento flemmatico, dovevano ricercare alimenti caldo-secchi: carne di vitello, cacciagione, formaggi stagionati, pesce salato, cipolle, carote, castagne, noci, frutta secca, miele, abbinati a vini bianchi frizzanti.
L’AVVENTO DELLO ZUCCHERO
Nell’Età Moderna si assistette ad un’importante evoluzione dell’apicoltura in termini sia scientifici che tecnici. Premessa di tutto ciò fu la migliore conoscenza della vita e della struttura delle api: nel 1586 lo spagnolo Luis Mendez de Torres parlò per la prima volta di vertice gerarchico dell’alveare con a capo un’ape femmina e ovificatrice; pochi anni dopo gli inglesi Charles Butler e Richard Remnant dimostrarono rispettivamente che i fuchi erano maschi e le api operaie femmine. Proprio in questa fase storica, però, il miele dovette subire la concorrenza di un “nemico” formidabile, lo zucchero.
Dalla fine del Seicento ai primi dell’Ottocento venne sviluppata nelle isole caraibiche la coltivazione della canna da zucchero, mentre in Europa fu sperimentata la barbabietola. Lo zucchero divenne di uso comune solo in pieno Settecento e da quel momento iniziò un’espansione che portò la sua produzione ad aumentare di 20 volte tra il 1850 e il 1950. In termini di prezzo lo zucchero, inizialmente più caro (nella Pianura Padana ancora al momento dell’Unità d’Italia l’«oro bianco» costava più del miele), divenne di gran lunga più economico e ciò favorì il suo sviluppo presso le classi popolari. Anche la politica si inserì in questo contesto eco-gastronomico: nel 1806 infatti Napoleone mise in atto il blocco continentale contro l’Inghilterra, principale esportatrice di zucchero di canna. Ma il bisogno del “nuovo” dolcificante, come già accennato, cresceva a vista d’occhio e per supplirvi si dovette ricercare un’alternativa alla canna da zucchero: la barbabietola, appunto.
VERSO LA RAZIONALIZZAZIONE DELL’ALVEARE
Per il miele sembrava dover iniziare un periodo di marginalizzazione. Se non voleva scomparire del tutto, esso doveva puntare sulle sue intrinseche qualità, basata su tre punti essenziali: 1) un prezzo concorrenziale; 2) un sapore ancora più buono e caratteristico; 3) l’utilizzo di una tecnica di produzione più efficiente. Si fece promotore di queste istanze l’avvocato Luigi Savani, che nel 1811 scrisse un trattato dal titolo Modo per conservare le api e per estrarre il miele senza ucciderle in cui propose un’apicoltura semi-razionale che rinunciasse alla pratica dell’apicidio e producesse un miele di maggiore qualità tramite “castrazione”, cioè il prelevamento selettivo dall’alveare di favi contenti solo miele.
In questa direzione si mossero alla fine dell’Ottocento il maggiore Von Hruska e l’abate Collin, i quali idearono due invenzioni che permisero di produrre un miele sempre più pulito e libero da sostanze e sapori estranei: il primo creò lo smielatore, che permetteva di estrarre il miele senza distruggere i favi; il secondo perfezionò l’escludiregina, una griglia che, consentendo il passaggio delle api ma non della più voluminosa regina, permetteva di produrre miele in una sezione dell’alveare, evitando che nei favi riservati allo stoccaggio del miele da parte delle api fosse anche presente covata.
DAL MIELE AI MIELI
Nel Novecento si sviluppa una maggiore attenzione alla provenienza botanica dei mieli: gli importanti studi di alcuni pionieri melliflui – tra cui l’instancabile Don Giacomo Angeleri (Gamalero 1877 – Reaglie 1957), fondatore della Federazione Apistica Piemontese e autore presso al rivista L’apicoltore moderno – permisero di mettere in atto negli anni Settanta una caratterizzazione dei mieli uniflorali, con le prime analisi melissopalinologiche (origine geografica e botanica del miele), l’esplorazione e la quantificazione dei granuli pollinici rimasti come residuo in un miele, per dimostrarne la provenienza. Da questo momento in poi non si può più parlare di miele ma di “mieli”. Oggi solo in Italia ne esistono più di 50 tipi: si va da quello di acacia (il più utilizzato) a quello di arancio, da quello d’eucalipto a quello «millefiori», dal miele di sulla, a quello di corbezzolo, di eucalipto, di girasole, di tarassaco, di limone, di mandarino, di rododendro, di tiglio, di rosmarino e di moltissimi altre piante e fiori.
Brezzo produce 22 varietà di miele italiano, valorizzando e tutelando l’enorme patrimonio apistico del nostro Paese.
Vi racconteremo una dolcissima quanto affascinante storia: quella del miele. Conosciuto fin dalla preistoria, il miele era il più prezioso – perché unico – dolcificante dell’epoca antica. Utilizzato come corroborante e unguento da Egizi e Babilonesi, tra i Greci divenne «cibo degli dei».
Anche se la parola «miele» sembra derivare dall’ittita melit, la storia di questo celebre dolcificante è molto più antica di quella dell’omonima popolazione indoeuropea che abitò l’Asia Minore nel II millennio a.C. La presenza di piante che producono nettare e polline è documentata tra i 100 e 150 milioni di anni, mentre le prime api compaiono sulla Terra fra i 50 e i 25 milioni di anni fa. Non sono ancora però le api sociali, – cioè le api che agiscono come organismo collettivo – che, secondo gli studi, avrebbero un’età che va dai 20 a 10 milioni di anni – l’essere umano, a titolo di paragone, fa la sua comparsa sulla Terra solo un milione di anni fa!
Anche se la parola «miele» sembra derivare dall’ittita melit, la storia di questo celebre dolcificante è molto più antica di quella dell’omonima popolazione indoeuropea che abitò l’Asia Minore nel II millennio a.C. La presenza di piante che producono nettare e polline è documentata tra i 100 e 150 milioni di anni, mentre le prime api compaiono sulla Terra fra i 50 e i 25 milioni di anni fa. Non sono ancora però le api sociali, – cioè le api che agiscono come organismo collettivo – che, secondo gli studi, avrebbero un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni. L’essere umano, a titolo di paragone, fa la sua comparsa sulla Terra solo un milione di anni fa!
IL BASTONE E LA BIBBIA
Già nella Preistoria si conosceva la bontà del miele: i nostri antichissimi progenitori erano soliti procurarselo intingendo un bastone nei nidi d’ape dentro i tronchi degli alberi e tra le rocce. Fonte insospettabile di questa modalità di procacciamento è la Bibbia: nel I libro di Samuele si legge infatti che Gionata, figlio del re Saul, «allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (I Sam. 14,27). Una prima testimonianza artistica di questa ricerca del miele ci viene offerta da un dipinto, databile intorno al 7000 a.C., eseguito sulla parete di una grotta sita a Cueva de la Aragna (Spagna orientale): in tale pittura rupestre si nota una figura umana, arrampicatasi fino al nido d’api tramite delle liane, nell’atto di prendere con una mano dei favi di miele mentre nell’altra tiene un contenitore da trasporto.
LA NASCITA DELL’APICOLTURA E LA LUNA DI MIELE
Il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà ebbe come conseguenza l’abbandono di questi sistemi primitivi di procacciamento e la nascita dell’apicoltura. Pare che i primi a sviluppare questa pratica furono – intorno al 3000 a.C. – gli Egizi, i quali usavano deporre accanto alle mummie grandi coppe o vasi ricolmi di miele per il loro viaggio nell’Aldilà (alcuni di questi recipienti sono stati recentemente rinvenuti durante gli scavi ancora perfettamente conservati).
Dalla decifrazione dei geroglifici risulta che le ricette a base di miele erano impiegate non solo ad uso alimentare ma anche medico, per la cura di disturbi digestivi e per la produzione di unguenti per piaghe e ferite.
L’espressione “luna di miele” nacque in questi anni remoti, probabilmente da usanze babilonesi. Il popolo mesopotamico definiva in questo modo il mese successivo al matrimonio di una coppia: in tale periodo il padre della sposa aveva l’obbligo di rifornire il genero del liquido dorato affinché egli si ristorasse e fosse aiutato nelle “fatiche amorose”. D’altronde anche la medicina ayurvedica, già nel 2700 a.C. circa, considerava il miele non solo dolcificante ma anche purificante, dissetante, vermifugo, antitossico, regolatore, refrigerante, stomachico, cicatrizzante e, appunto, afrodisiaco.
IL CIBO DEGLI DEI
Nella Grecia antica il culto per l’ambrosia, il “cibo degli dei”, portò a un forte interesse verso il comportamento delle api, il cui allevamento veniva di solito affidato a uno schiavo esperto in materia chiamato melitouros. Scrissero di miele e apicoltura scrittori come Omero (che narra la raccolta del miele selvatico), Pitagora (che considerava il miele un elisir di lunga vita) e Aristotele (che descrive minuziosamente il comportamento delle api).
Le conoscenze elleniche in materia furono ereditate dai Romani. Anche presso la civiltà latina possiamo riscontrare un forte interesse verso il miele, visto che i più grandi autori del periodo hanno trattato l’argomento (tra questi Virgilio nel IV libro delle Georgiche e Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale). Anche nella romanità il lavoro apistico era affidato a schiavi “eruditi”, gli apiarii, che con la loro competenza garantivano un reddito elevato ai loro padroni.
I Romani importavano grandi quantitativi di miele da Creta, Cipro, Spagna e soprattutto Malta; da quest’ultima pare anche derivare il nome originale Meilat, appunto «terra del miele».
Neanche il padre della letteratura italiana fu immune al fascino di questi piccoli volatili. Nella Divina Commedia, più precisamente nel XXI canto del Paradiso, Dante Alighieri paragona il tripudio degli angeli presenti nella Candida Rosa (luogo dove risiedono i beati del Paradiso) con una straordinaria metafora apistica, ricca di movimento e di meraviglia:
Sì come schiera d’api che s’infiora
una fiata e una si ritorna
là dove il suo laboro s’insapora.
LE API VIZIOSE
Nel XVI secolo il miele venne soppiantato dallo zucchero di canna, più facile da conservare e dal sapore “esotico”: l’interesse letterario per le api andò scemando. Ma il ‘700, attraversato da profonde riflessioni socio-politiche e morali, riscoprì le api in chiave simbolica.
Si può citare come esempio il poemetto satirico La favola delle api, scritto nel 1705 dal medico e filosofo olandese Bernard de Mandeville. Il sottotitolo del saggio, Vizi privati e pubbliche virtù, esplicita la critica che l’autore muove alla società in cui vive, ormai avviata allo sviluppo industriale. Secondo lo spirito libertario e libertino dell’autore, i vizi privati sostentano le virtù pubbliche, proprio come fanno le api nell’alveare. Ciascuna lavora – per istinto (quindi per vizio) ad un lavoro particolare, che armonizzato produce il miracolo del miele. Gli uomini, conclude il filosofo, dovrebbero dunque non vergognarsi di avere dei vizi, perché sono dotazioni naturali che non contraddicono i bisogni della comunità.
LE API OPERAIE
Un rimando alla laboriosità dell’ape non poteva di certo mancare nell’opera di Karl Marx, filosofo tedesco e primo teorico del comunismo. Nella terza sezione del primo de Il Capitale (1867) egli vuole chiarire in che modo il lavoro degli animali sia diverso da quello degli esseri umani e per farlo utilizza l’esempio dell’ape. Pur costruendo degli alveoli perfetti, che non temono il confronto con più di un’opera architettonica umana, anche l’ape più abile si distingue dal peggiore degli architetti poiché quest’ultimo ha costruito la sua opera nella sua testa prima che nella materia concreta. Il processo lavorativo umano approda quindi a un risultato che già preesiste idealmente nel cervello del lavoratore. Egli, a differenza degli insetti, non opera soltanto un cambiamento di forma nelle materie naturali, ma vi realizza nello stesso tempo il suo scopo; scopo di cui egli ha coscienza, che determina come legge il suo modo d’azione e al quale subordina la sua volontà.
Una curiosità di “genere”. Fino al Settecento si pensava che al comando delle api stesse un «Re», un’ape di sesso maschile che rispecchiava il diritto prevalentemente maschile di esercitare il potere sovrano.
L’APE POETICA
Tra i poeti contemporanei che amarono l’ape ci fu EmilyDickinson, poetessa statunitense vissuta nella seconda metà dell’800. Lo spirito lirico e romantico della Dickinson vede nell’ape il mistero della primavera, che risveglia nello spirito il desiderio di vita e di bellezza.
Nel nome dell’Ape –
E della Farfalla –
E della Brezza – Amen!
L’APE FEMMINISTA
La scoperta del matriarcato delle api è una conquista del XVII secolo. Da allora l’ape ha prodotto una messe di nuovi spunti letterari. Come in Sylvia Plath (1932-1963), tormentata poetessa di Boston il cui padre era entomologo. Nella poesia La riunione delle api, l’alveare diventa il simbolo della società femminile asservita a quella patriarcale, che irrompe con la violenza del predatore a rubare il miele e a violare il segreto di un mondo totalmente diverso da quello maschile:
Il bianco alveare, compatto come una vergine, occlude
La sua fecondità, il suo miele, brusisce quieto.
Fumo si spande e serpeggia nella radura.
La mente dell’alveare pensa che questa è la fine.
IN DIFESA DELLE API
La recente e drammatica condizione delle api, la cui popolazione sta drammaticamente diminuendo, con conseguenze catastrofiche per l’ecosistema mondiale (ricordate la celebra frase di Einstein, «se l’ape scomparisse dalla terra, all’umanità resterebbero quattro anni di vita»), ha portato l’ape a rivestire un nuovo ruolo simbolico. Quella di guardiana dell’ambiente, un essere i cui atteggiamenti, pur guidati da istinti naturali, sono orientati alla tutela del futuro del mondo. Ecco che l’ape, dopo essere stata simbolo dell’operosità, della comunità, della condizione operaia e femminile, diventa entità qualitativamente superiore a quella umana, perché dotata di una perfezione che preserva la natura e non la distrugge. Un esempio ironico e pungente di questa nuova visione si trova nel libro di Franco Marcoaldi, Animali in versi (Einaudi, 2006), in cui il protagonista, un «rubicondo apicoltore», non può far altro che ammettere la netta supremazia degli insetti:
Il mio vicino di casa
è un apicoltore rubizzo
e bonario, un fanciullo
che racconta novelle.
Del matematico mondo
delle api mi parla da anni,
eppure ogni volta lo ascolto
incantato, come quando sostiene
che ciascun alveare
è la prova palmare
della netta supremazia degli insetti.
«Meniamo gran vanto delle nostre città:
ma citami uno, tra mille architetti,
in grado di fare non un muro che sale,
ma un muro che scende. Senza tanto
strillare, le anonime api
lo fanno da sempre. Attaccate
al soffitto raggiungono il suolo
rimanendo sospese al proprio cantiere
e prive di metro, filo a piombo
e compasso, disegnano esagoni
di misure perfette, garantendo
in tal modo – nel minimo spazio –
il massimo numero di uguali cellette».
La raccolta di mieli primaverili è quasi conclusa. Un’annata davvero particolare, dove il caldo anomalo di marzo e dei primi giorni di aprile è stato bruscamente interrotto da improvvise gelate e cattivo tempo, che hanno fermato le fioriture e la produzione di miele.
Una questione di clima, ma non solo. Abbiamo intervistato Fabio e AndreaBrezzo che ci hanno fornito un quadro dettagliato della situazione.
Con la fine dell’inverno e la primavera in fioritura, le api iniziano a bottinare. Quali sono le prime fioriture a cui le api si rivolgono?
Le prime fioriture dell’anno nel Basso Piemonte sono quella del tarassaco, del ciliegio e del melo. Essendo queste fioriture contemporanee l’abilità dell’apicoltore è quella di posizionare i propri alveari in un’area dove ci sia una fioritura prevalente ed una relativa assenza delle altre, in modo da evitare che le api vadano a bottinare su tutti e tre i fiori e riuscire dunque a produrre un miele monoflorale.
Ci potete fornire un piccolo calendario con la raccolta dei mieli primaverili?
Occorre divedere per zone. In Piemonte come detto le prime fioriture sono quelle del tarassaco, del ciliegio e del melo. Quest’anno avendo fatto un mese di marzo e un inizio di aprile molto caldo le fioriture sono state anticipate e sono iniziate già i primi giorni di aprile. A metà dello stesso mese (con due settimane di anticipo rispetto alle annate normali) è fiorita l’acacia che quasi dappertutto rappresenta il raccolto principale. Contemporaneamente in Puglia, in Calabria e in Sicilia è iniziata la fioritura degli agrumeti e quindi la produzione di miele di arancio, limone e mandarino. Dopo un paio di settimane in alcune zone del Centro e Sud Italia c’è la raccolta del miele di sulla.
Arnie ubicate nei pressi di una fioritura di tarassaco
E di quelli estivi?
Intorno ad inizio giugno in Piemonte sarà la volta del castagno e del tiglio e, dopo qualche settimana sposteremo le nostre api in alta montagna (Valle Maira, nel Cuneese) per produrre il miele di montagna di rododendro e la melata di abete. Più o meno contemporaneamente a queste fioriture in pianura ci sarà la raccolta del girasole, del coriandolo e del trifoglio. Ad inizio luglio i campi inizierà la raccolta del miele di lavanda. A metà luglio in Calabria ed in Sicilia c’è la raccolta del miele di Eucalipto. Tornando in Piemonte, le api che scendono dalla montagna verso inizio agosto sono pronte a raccogliere e produrre la melata di bosco nella zona del Roero e del Monferrato. In queste zone la melata di bosco si protrae fino a fine agosto rappresenta l’ultima raccolta dell’anno. A settembre in Sicilia e soprattutto Calabria fiorisce un tipo particolare di Eucalipto (Eucalyptus Occidentalis) da cui si produce miele. Per l’ultimo miele prodotto in Italia occorre aspettare novembre quando in Sardegna si raccoglie il raro e pregiato miele di corbezzolo.
Quali sono le operazioni di apicoltura che si eseguono in questo periodo?
Terminata la raccolta dell’acacia, in questi giorni è in corso la smielatura (l’estrazione del miele dai telaini). Contemporaneamente l’apicoltore deve controllare le scorte di miele negli alveari in modo da preparare le api per i prossimi spostamenti.
Come sta andando la raccolta?
La raccolta è iniziata abbastanza bene sulle prime fioriture (tarassaco e ciliegio), favorite dal clima caldo. Purtroppo appena si sono iniziati a vedere i primi boccioli di acacia fioriti il clima è drasticamente cambiato.
Quali problemi si sono riscontrati?
Una forte perturbazione proveniente dal Nord Europa ha portato freddo, vento e pioggia. In quasi tutta Italia si è assistito (fenomeno assolutamente inusuale per il periodo) a gelate notturne che hanno compromesso la fioritura e quindi la raccolta. Purtroppo il maltempo è continuato per tutto il periodo della fioritura e la produzione di miele di acacia è stata praticamente nulla. In alcune zone addirittura in piena fioritura si è dovuti intervenire a portare del nutrimento agli alveari affamati in quanto pur circondati da fiori stavano morendo di fame avendo finito le scorte. In assenza di certe condizioni di temperatura e umidità i fiori non rilasciano nettare e le api non possono bottinare. Quello che fa ulteriore rabbia è che, appena terminata la fioritura, il tempo è finalmente virato verso il bello. Ora speriamo che le fioriture estive non riservino brutte sorprese.
Quali cause sono alla base di una diminuzione della produzione?
È un dato di fatto ormai incontrovertibile che si sta producendo meno miele rispetto al passato. Ci sono diverse cause alla base di ciò. In alcune zone ci sono stati problemi legati all’utilizzo di fitofarmaci e diserbanti (in particolare del glifosato) in agricoltura che hanno causato avvelenamento di api e conseguenti spopolamenti. È questo un tema molto importante di cui per fortuna si sta iniziando a parlare su vasta scala e si sta cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica. A nostro avviso però la causa principale delle scarse produzioni degli ultimi anni è però l’ormai evidente cambiamento climatico che si sta verificando in maniera sempre più netta, in particolare in primavera ed inizio estate. Gli inverni sono meno freddi e lasciano spazio a primavere dal clima molto variabile e instabile in cui a settimane di caldo “fuori stagione” seguono settimane di freddo e vento. Il tepore invernale fa sì che la campagna e le fioriture siano anticipate, ancora più stimolate dalle improvvise e fugaci ondate di caldo. Purtroppo però il freddo è destinato a tornare e lo fa quando è più dannoso ovvero quando gli alberi sono già in fiore.
Il 2016 è stato definito un anno nero per le api. Come sarà il 2017? Si possono fare previsioni?
Il 2016 a detta di tutti è stato l’annus horribilis per l’apicoltura italiana e, sinceramente, si pensava di aver toccato il fondo. Purtroppo dalle prime indicazioni il 2017, almeno al Centro Nord, sembra essere iniziato in maniera ancora peggiore. La raccolta del miele di acacia, che per gli apicoltori rappresenta la maggior fonte del reddito, è stata più che disastrosa, è stata nulla. Questo causerà diversi problemi. Infatti oltre all’assenza del prodotto comporterà anche problemi agli alveari che si stanno indebolendo e arriveranno quindi con meno scorte e meno pronti per le prossime fioriture.
Ci sono rischi di contraffazione o frodi?
In periodi di scarsità di raccolto è bene prestare attenzione al prezzo, indicatore importante. Un miele d’acacia molto economico può rivelare che la materia prima è stata acquistata all’estero, o miscelata con quella autoctona. L’etichetta del miele è comunque parlante. Se compare la dicitura ITALIANO – come per i nostri mieli prodotti in Piemonte, Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia Sardegna – per legge il miele deve provenire dal nostro Paese. È una scelta di serietà e trasparenza che tutela, prima di tutto, il consumatore e il suo diritto ad essere informato correttamente.
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