L’ape nella letteratura. Dante, Marx e la superiorità delle api

13/07/2017 | Blog, Cultura, Miele

Capitolo II – Dante, Marx e la superiorità delle api
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Neanche il padre della letteratura italiana fu immune al fascino di questi piccoli volatili. Nella Divina Commedia, più precisamente nel XXI canto del Paradiso, Dante Alighieri paragona il tripudio degli angeli presenti nella Candida Rosa (luogo dove risiedono i beati del Paradiso) con una straordinaria metafora apistica, ricca di movimento e di meraviglia:

Sì come schiera d’api che s’infiora
una fiata e una si ritorna
là dove il suo laboro s’insapora.

LE API VIZIOSE

Nel XVI secolo il miele venne soppiantato dallo zucchero di canna, più facile da conservare e dal sapore “esotico”: l’interesse letterario per le api andò scemando. Ma il ‘700, attraversato da profonde riflessioni socio-politiche e morali, riscoprì le api in chiave simbolica.

Si può citare come esempio il poemetto satirico La favola delle api, scritto nel 1705 dal medico e filosofo olandese Bernard de Mandeville. Il sottotitolo del saggio, Vizi privati e pubbliche virtù, esplicita la critica che l’autore muove alla società in cui vive, ormai avviata allo sviluppo industriale. Secondo lo spirito libertario e libertino dell’autore, i vizi privati sostentano le virtù pubbliche, proprio come fanno le api nell’alveare. Ciascuna lavora – per istinto (quindi per vizio) ad un lavoro particolare, che armonizzato produce il miracolo del miele. Gli uomini, conclude il filosofo, dovrebbero dunque non vergognarsi di avere dei vizi, perché sono dotazioni naturali che non contraddicono i bisogni della comunità.

LE API OPERAIE

Un rimando alla laboriosità dell’ape non poteva di certo mancare nell’opera di Karl Marx, filosofo tedesco e primo teorico del comunismo. Nella terza sezione del primo de Il Capitale (1867) egli vuole chiarire in che modo il lavoro degli animali sia diverso da quello degli esseri umani e per farlo utilizza l’esempio dell’ape. Pur costruendo degli alveoli perfetti, che non temono il confronto con più di un’opera architettonica umana, anche l’ape più abile si distingue dal peggiore degli architetti poiché quest’ultimo ha costruito la sua opera nella sua testa prima che nella materia concreta. Il processo lavorativo umano approda quindi a un risultato che già preesiste idealmente nel cervello del lavoratore. Egli, a differenza degli insetti, non opera soltanto un cambiamento di forma nelle materie naturali, ma vi realizza nello stesso tempo il suo scopo; scopo di cui egli ha coscienza, che determina come legge il suo modo d’azione e al quale subordina la sua volontà.

Una curiosità di “genere”. Fino al Settecento si pensava che al comando delle api stesse un «Re», un’ape di sesso maschile che rispecchiava il diritto prevalentemente maschile di esercitare il potere sovrano.

L’APE POETICA

Tra i poeti contemporanei che amarono l’ape ci fu Emily Dickinson, poetessa statunitense vissuta nella seconda metà dell’800. Lo spirito lirico e romantico della Dickinson vede nell’ape il mistero della primavera, che risveglia nello spirito il desiderio di vita e di bellezza.

Nel nome dell’Ape –
E della Farfalla –
E della Brezza – Amen!

L’APE FEMMINISTA

La scoperta del matriarcato delle api è una conquista del XVII secolo. Da allora l’ape ha prodotto una messe di nuovi spunti letterari. Come in Sylvia Plath (1932-1963), tormentata poetessa di Boston il cui padre era entomologo. Nella poesia La riunione delle api, l’alveare diventa il simbolo della società femminile asservita a quella patriarcale, che irrompe con la violenza del predatore a rubare il miele e a violare il segreto di un mondo totalmente diverso da quello maschile:

Il bianco alveare, compatto come una vergine, occlude
La sua fecondità, il suo miele, brusisce quieto.

Fumo si spande e serpeggia nella radura.
La mente dell’alveare pensa che questa è la fine.

IN DIFESA DELLE API

La recente e drammatica condizione delle api, la cui popolazione sta drammaticamente diminuendo, con conseguenze catastrofiche per l’ecosistema mondiale (ricordate la celebra frase di Einstein, «se l’ape scomparisse dalla terra, all’umanità resterebbero quattro anni di vita»), ha portato l’ape a rivestire un nuovo ruolo simbolico. Quella di guardiana dell’ambiente, un essere i cui atteggiamenti, pur guidati da istinti naturali, sono orientati alla tutela del futuro del mondo. Ecco che l’ape, dopo essere stata simbolo dell’operosità, della comunità, della condizione operaia e femminile, diventa entità qualitativamente superiore a quella umana, perché dotata di una perfezione che preserva la natura e non la distrugge. Un esempio ironico e pungente di questa nuova visione si trova nel libro di Franco Marcoaldi, Animali in versi (Einaudi, 2006), in cui il protagonista, un «rubicondo apicoltore», non può far altro che ammettere la netta supremazia degli insetti:

Il mio vicino di casa
è un apicoltore rubizzo
e bonario, un fanciullo
che racconta novelle.
Del matematico mondo
delle api mi parla da anni,
eppure ogni volta lo ascolto
incantato, come quando sostiene
che ciascun alveare
è la prova palmare
della netta supremazia degli insetti.

«Meniamo gran vanto delle nostre città:
ma citami uno, tra mille architetti,
in grado di fare non un muro che sale,
ma un muro che scende. Senza tanto
strillare, le anonime api
lo fanno da sempre. Attaccate
al soffitto raggiungono il suolo
rimanendo sospese al proprio cantiere
e prive di metro, filo a piombo
e compasso, disegnano esagoni
di misure perfette, garantendo
in tal modo – nel minimo spazio –
il massimo numero di uguali cellette».