Tre consigli per un’estate in compagnia delle api

Tre consigli per un’estate in compagnia delle api

Le vacanze sono alle porte e con esse la possibilità di dedicarsi alle proprie passioni. Da amanti del miele quali siamo, abbiamo raccolto in questo post qualche consiglio per approfondire la propria conoscenza delle api, una passione che che la famiglia Brezzo si tramanda da tre generazioni.

Potevamo consigliarvi manuali e saggi, libri tecnici o articoli di settore. Abbiamo optato invece per alcuni suggerimenti di visione e di lettura molto godibili e “leggeri”. Si tratta di un documentario, di un film e di un libro che ci hanno davvero colpiti perché, raccontando di api e di apicoltori, in realtà narrano una parte importante della nostra vita: il rapporto che abbiamo con l’ambiente e il suo fragile equilibrio, all’interno del quale le api giocano un ruolo tutt’altro che secondario. 

1. UN DOCUMENTARIO

MORE THAN HONEY

Il più straordinario documentario sulle api mai prodotto (almeno finora) è il capolavoro di Markus Imhoof, More Than Honey. Il film, uscito nel 2013, ha richiesto 5 anni di riprese e migliaia di km percorsi dal regista, che ha condotto la sua ricerca sui 4 continenti.

Il risultato è spettacolare: per immagini, intensità del racconto, incredibili macro sul mondo segreto delle api, storie, personaggi. More then Honey racconta il rapporto secolare tra l’uomo e le api, la loro funzione cruciale per la natura e la più che mai attuale sindrome da spopolamento (un fenomeno ancora poco conosciuto per il quale le colonie di api periscono bruscamente) che si è diffusa in modo preoccupante negli ultimi anni. Il documentario di Imhoof, attraverso testimonianze dirette e specializzate, richiama la nostra attenzione sull’importanza delle api, dimostrando che Einstein aveva forse esagerato con la sua celebre sentenza sulle api («quando le api scompariranno dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita»), eppure non era andato così lontano visto che: «senza api, un terzo di tutto ciò che mangiamo probabilmente non ci sarebbe».

L’opera di Imhoof merita una visione anche solo per la tecnica di ripresa: micro-videocamere piazzate sulla schiena degli insetti ci svelano l’interno degli alveari, si addentrano tra stigmi e ovuli dei fiori, seguendo gli sciami in volo. Ape regina, api operaie e fuchi sembrano formare un unico organismo prodigioso, quello che permette ai fiori e alle piante di generare la vita vegetale sul pianeta.

2. UN FILM

LE MERAVIGLIE

Sotto la sapiente regia di Alice Rohrwacher, questa favola contemporanea è un film che tutti gli amanti delle api dovrebbero guardare con attenzione. La regista di Corpo celeste e del recente Lazzaro Felice racconta la delicata e semplice vicenda di una famiglia di apicoltori che hanno scelto produrre miele tra difficoltà economiche e famigliari, guidati da una sincera dedizione alla natura e al paesaggio rurale.

L’arrivo della televisione e della retorica del «tipico» e dell’«autentico» metterà in crisi i protagonisti e farà esplodere non solo le tensioni già presenti all’interno del nucleo familiare, ma le stesse che intercorrono tra i concetti di campagna e città, di rurale e urbano, di innovazione e tradizione.

«L’apicoltura è un’attività che è tutt’uno con il vivere», ha detto la regista del suo film. «Mi interessava mostrare come la vita e il lavoro in campagna siano profondamente collegati. L’ho voluto raccontare perché lo spettatore si ponga delle domande sul come si vive in altre parti della società, separando questi due aspetti: il mestiere e il tempo libero».

Un film toccante, in cui le api e il loro rapporto con i protagonisti diventano il simbolo di un legame, quello con la natura, che troppo spesso banalizziamo o diamo per scontato.

3. UN LIBRO

STORIA DELLE API (edizioni Marsilio)

«L’umanità può imparare dalle api», ha detto Maja Lunde, autrice di Storia delle api, testo definito come il più completo – e interessante – libro mai scritto sui più laboriosi insetti del mondo. «Mentre lavoriamo per una vita migliore per noi stessi e per i nostri figli, le api lavorano per l’alveare, cioè per tutti», continua l’autrice, «il pianeta è il nostro alveare, ogni cosa è collegata all’altra».

Conosciuta per i suoi libri rivolti ai ragazzi, La storia delle api è il suo primo libro per adulti della Lunde. E che libro! Un esordio poderoso, epico, che ha suscitato un vero e proprio “vespaio” alla sua uscita, nel 2015. Non si tratta infatti di una narrazione di armonie bucoliche, piuttosto la visione ispirata e dolente di un mondo attraversato da forme di vita che si intrecciano le une alle altre. E che, attraverso le api, interpellano la natura umana e il suo rapporto con il creato.

Il libro non è un trattato, ma un vero e proprio romanzo, dalla trama accattivante, capace di mescolare le storie di tre protagonisti su di un arco temporale di 300 anni, tutti connessi attraverso il mondo delle api e della loro – possibile – scomparsa. La lettura procede spedita tra le vite di William, biologo inglese di metà Ottocento; George, apicoltore contemporaneo che lotta contro la moria delle api; e Tao, ragazzo cinese del 2098, la cui attività principale è l’impollinazione manuale, dal momento che le api hanno cessato di esistere.

Leggere La storia delle api è un po’ come leggere la nostra storia, mettendo in discussione le scelte che stiamo intraprendendo, interrogandoci sulle cose che davvero vogliamo salvare per il futuro di chi verrà.

Il Roero, terra di gustose eccellenze

Il Roero, terra di gustose eccellenze

Forse meno conosciuto delle Langhe, il Roero è una terra ricca di contrasti e sfumature, culla non solo di una fiorente viticoltura, ma di produzioni agroalimentari d’eccellenza che sono alla base dei prodotti Brezzo

Osservando il percorso del Tanaro su di una mappa scoprirete una cosa curiosa. Se a Sud le curve delle Langhe si innalzano fino a diventare Appennino Ligure, a Nord, sulla direttrice che idealmente collega Bra, Alba e San Damiano d’Asti la pianura scavata dal fiume crea un altro sistema collinare che, altimetricamente più basso, si spegne nella pianura di Torino, verso Ceresole. Questa zona, che si distende sul confine nordorientale della provincia di Cuneo, è il Roero.

Caratterizzato da colline verdissime e frastagliate, il Roero è assai più vario delle vicine Langhe: orti, boschi di latifoglie e castagneti, frutteti, piccoli laghi e, soprattutto, le Rocche, imponenti calanchi che, d’improvviso, rompono il paesaggio creando bastioni di roccia e canyon profondi anche centinaia di metri, immediatamente evidenti perché espongono il ventre della collina: il giallo delle arenarie che qui caratterizzano i suoli del Roero.

Già, perché il Roero, originatosi circa 11 milioni di anni fa era una zona costiera, una sorta di immensa costa con fondali bassi e sabbiosi che si affacciava sul mare Padano. Ancora oggi, basta scavare un poco il terreno per ritrovare fossili e conchiglie depositatesi ere geologiche fa. In sintesi, i suoli del Roero differiscono da quelli di Langa per un’età globalmente più giovane e per una considerevole presenza di sabbie fini e calcaree, peculiarità che ha permesso al Roero di differenziare le colture: non solo vigneti, ma orticoltura e frutticoltura d’eccellenza.

Terra di grandi vini

Inutile negarlo, il Roero è terra di vini. Su tutti spiccano il Roero Docg e il Roero Arneis Docg. Il primo è un rosso ottenuto da uve nebbiolo: di buon corpo, strutturato e longevo, conserva profumi e sapidità tipici dei suoli sabbiosi e calcarei. Il Roero Arneis è invece uno dei più importanti bianchi del Piemonte. Ottenuto in purezza da uve arneis (il cui nome deriverebbe dalla località Renesio ubicata vicino a Canale d’Alba), l’Arneis regala freschezza e note elegantemente fruttate, di fiori bianchi e erbacee. In bocca fresco e asciutto, con il tipico finale amarognolo che lo rende inconfondibile. Sulle colline del Roero si producono anche Favorita, Barbera e alcuni vini da vitigni internazionali ormai “tradizionali” come lo Chardonnay e il Sauvignon. Non molti sanno, infine, che nel Roero si può produrre anche il Moscato d’Asti: Santa Vittoria d’Alba è l’unico comune della zona in cui è concessa la produzione perché un tempo sede della famosa ditta Cinzano, che utilizzava le uve di Moscato come base del Vermouth.

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Una straordinaria orticoltura e frutticoltura

Per capire la ricchezza orticola del Roero basterebbe fare un giro al Mercato Ortofrutticolo del Roero: oltre 400 contadini che espongono il meglio delle produzioni locali. Tra gli ortaggi e la frutta prodotti in zona, per fare qualche esempio, spiccano le pesche del Roero, le albicocche, le pere Madernassa, le mele renette, i peperoni, gli asparagi, i porri, le fragole (celebrate a Sommariva Perno da una sagra dedicata), le castagne del Roero e le nocciole Piemonte IGP.

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Le pesche che salvarono il Roero

Prodotto tipico delle zone intorno a Canale d’Alba e Monteu Roero, la coltivazione della pesca avviene ancora secondo la tradizione, su terreni anche scoscesi, bene esposti, dove non è possibile ricorrere all’irrigazione. Le pesche si diffusero nel Roero per sostituire i filari colpiti da fillossera alla fine del XX secolo con notevole fortuna commerciale. Dal punto di vista varietale prevalgono le cultivar con buccia pelosa e a polpa gialla. In tutto il Roero si sta assistendo ad un imponente sforzo di recupero e valorizzazione di antiche varietà un tempo coltivate in questa zona.

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La pera Madernassa

Vanto del Roero, la pera Madernassa è protetta e valorizzata dall’omonimo Consorzio. Leggenda vuole che la pianta madre nacque da un seme caduto per caso in un appezzamento della cascina Gavello della Borgata Madernassa su di una collina posta tra i paesi di Guarene e di Castagnito. Da lì si diffuse per le sue caratteristiche: un frutto croccante e asprigno, con note agrumate, perfetto da cuocere e da utilizzare in ricette raffinate.

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La Nocciola Piemonte IGP

Sicuramente la più pregiata nocciola al mondo grazie al sapore delicato e persistente, per consistenza e duttilità di impiego nelle produzioni di pasticceria. È lei la «Regina Nocciola» diffusa nelle Langhe e nel Roero: sulla sua raccolta si basa gran parte dell’economia agricola della zona, subito dopo la viticoltura.

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Il Tartufo Bianco d’Alba

Ebbene sì. I Boschi del Roero sono un grande bacino di raccolta del pregiatissimo Tartufo Bianco d’Alba, la cui raccolta comincia il 21 settembre per terminare il 31 gennaio. Il Re dei Funghi ama comparire sotto i noccioli, i tigli, le roveri e le roverelle, le querce e i pioppi: varietà che abbondano nelle zone selvagge del Roero e vicino alle Rocche, dove umidità e fonti d’acqua contribuiscono a far sviluppare il pregiatissimo Tuber magnatm Pico.

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Il Miele

L’apicoltura del Roero è una tradizione consolidata. Nel 2003 è stata inaugurata la Strada del miele del Roero, un “corridoio paesaggistico-culturale” di circa 38 Km che parte da Bra e giunge a Cisterna d’Asti, passando per Ceresole d’Alba e Monteu Roero. Sulla strada e i sentieri connessi sono ancora ben visibili le tracce antiche e moderne del patrimonio apistico e della cultura materiale che fanno del Roero una dolcissima “terra del miele”. Nel Roero si producono soprattutto mieli di tarassaco, castagno, ciliegio, acacia, millefiori e melata di bosco.

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Perhaps less well-known than the Langhe, Roero is a land rich in contrasts and nuances, the cradle of not just a flourishing winegrowing industry, but also farming of high quality fresh produce that is at the basis of Brezzo products.

Observing the course of the Tanaro river on a map, you will discover a curious fact. While to the south the hills of the Langhe rise to become the Ligurian Apennines, to the north, on the trajectory that connects Bra, Alba and San Damiano d’Asti, the plain created by the river forms another system of hills, lower in height, which comes down to the Turin plain towards Ceresole. This area, which extends to the north-eastern border of Cuneo province, is Roero.

Characterized by green, rugged hills, Roero is much more varied that the nearby Langhe. Vegetable farms, woods of deciduous trees and chestnut groves, fruit orchards, small lakes and above all the Rocche, imposing calanques that suddenly break up the landscape, creating rocky pinnacles and ravines up to hundreds of metres deep that expose the innards of the hill – the yellow of the sandstone that characterizes the soil of Roero.

Roero, which originated around 11 million years ago, was once a coastal area, a sort of immense coast with sandy shallows along the Po Sea. Even today, you just have to dig a little way down into the earth to find fossils and shells deposited geological eras ago. In short, the soils of Roero differ from those of the Langhe as being globally younger and with a considerable presence of fine, calcareous sand, a feature that has allowed Roero to diversify its crops – not just vineyards, but high quality fruit and vegetable farming. .

Land of great wines

It’s no use denying it, Roero is a land of wines. Standing out above all are Roero DOCG and Roero Arneis DOCG. The former is a red obtained from Nebbiolo grapes; full bodied, well-structured and long lived, it retains the scents and sapidity typical of its sandy, chalky soil. Roero Arneis, on the other hand, is one of Piedmont’s most important white wines.  A single-varietal made with Arneis grapes (the name comes from the Renesio hill near Canale d’Alba), Arneis offers freshness and elegantly fruity, white flower and grassy notes. Fresh and dry in the mouth, it has a typical slightly bitter finish that makes it unmistakeable. Also produced on the Roero hills are Favorita, Barbera and a number of wines from by now “traditional” international varieties such as Chardonnay and Sauvignon. Finally, not many know that Moscato d’Asti can also be produced in Roero.  Santa Vittoria d’Alba is the only municipality in the area where its production is allowed as it was once the site of the famous Cinzano company, which used Muscat grapes as a basis for Vermouth

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Extraordinary vegetable and fruit farming

To understand the diversity and abundance of Roero’s horticulture, you just have to stroll around the Roero Fruit and Vegetable Market where more than 400 farmers display the best of local produce. Of particular note among the fruit and vegetables grown in the area, for example, are Roero peaches, apricots, Madernassa pears, rennet apples, bell peppers, asparagus, leeks, strawberries (celebrated at Sommariva Perno with a dedicated food fest), Roero chestnuts and Piedmont IGP hazelnuts.

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The peaches that saved Roero

A typical product of the area around Canale d’Alba and Monteu Roero, peaches are still grown in the traditional way on steep well-exposed slopes where irrigation is not possible.  Cultivation of peaches spread throughout Roero to replace the vines stricken by phylloxera in the late 19th, century, with considerable commercial success.  The most widely-grown varieties are the fuzzy skinned, yellow fleshed cultivars. All over Roero great efforts are being made to revive and promote old varieties once grown in this area.

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The Madernassa pear

The pride of Roero, the Madernassa pear is protected and promoted by a Consortium of the same name. According to legend, the mother tree came from as seed that had fallen by chance on a plot of the Gavello farm in Borgata Madernassa on a hill situated between Guarene and Castagnito. As its qualities became known, it spread throughout the area. Crisp, with a slightly tannic flavour and citrus notes, it is an excellent cooking pear for use in delicious dishes.

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The Piedmont IGP Hazelnut

Without doubt the world’s most prized hazelnut due to its delicate, persistent flavour, consistency and myriad uses in confectionery products. The “Queen of Hazelnuts” is found throughout the Langhe and Roero, and the crop accounts for a large part of the area’s agricultural economy, second only to winegrowing.

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White Alba Truffle

Oh yes, the woods of Roero are a great catchment area for the highly-prized White Alba Truffle, which is gathered starting on 21 September until 31 January. The king of mushrooms prefers the ground under hazel trees, lime trees, oaks, durmasts and poplars, all species that are abundant in the untamed areas of Roero and around the Rocche, where dampness and springs contribute to development of the sought-after Tuber magnatm Pico.

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IHoney

Beekeeping is a well-established tradition in Roero. In 2003 the Roero Honey Road was established, an approximately 38k long “scenic-cultural corridor” that begins in Bra, passes through Ceresole d’Alba and Monteu Roero and ends in Cisterna d’Asti.  Clearly visible along the road and intersecting trails are ancient and modern signs of the beekeeping culture that makes Roero a sweet “land of honey”. In Roero we produce above all dandelion, chestnut, cherry, acacia, wildflower and honeydew honeys.

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Le api che inventarono le mummie: quattro curiosità sugli insetti più laboriosi del mondo

Conosciamo davvero il mondo delle api? Sapevate che la nostra relazione con questi laboriosi insetti risale a più di 9 mila anni fa? Che attraverso le api l’uomo ha imparato la tecnica della mummificazione? E cosa fanno le api d’inverno? Dedichiamo questo post a svelare alcune curiosità sulle api e a sfatare alcuni miti.

UN’ALLENAZA PREISTORICA

Tra le cooperazioni “socio-economiche” che si sono spontaneamente formate tra differenti specie animali, una delle più longeve è sicuramente quella instaurata tra uomini e api: la prima immagine iconografica che ne testimonia l’alleanza, cioè la raffigurazione di un alveare e di un cacciatore di miele – venne ritrovata nel 1921 sulla parete di Cueva della Araña – una grotta spagnola sita nella provincia di Valencia – e risale a circa 9000 anni fa. L’apicoltura vera e propria cominciò poco dopo, quando a seguito della rivoluzione del Neolitico l’essere umano passò dal nomadismo alla sedentarietà ed iniziò ad allevare le api dentro dei contenitori.

CHI HA DETTO CHE SENZA API LA VITA SULLA TERRA SI ESTINGUEREBBE?

«Se l’ape scomparisse dalla faccia della Terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita!»: questo celebre monito, attribuito nientedimeno che ad Albert Einstein, comparve per la prima volta in un volantino che l’Unione Nazionale Apicoltori Francesi distribuì a Bruxelles durante una protesta, avvenuta nel 1994, contro la concorrenza – giudicata sleale – che il miele d’importazione faceva a quello transalpino. Tuttavia, non esistono fonti che confermino la paternità dell’aforisma al celebre scienziato: alcuni sostengono che la frase venne coniata da un entomologo americano che tuttavia la presentò come frutto dell’ingegno dello scopritore della relatività per darle più celebrità, altri invece affermano che fu suggerita dall’UNAF. Chiunque sia l’autore, il ruolo delle api nella salvaguardia della biodiversità è acclarato, l’impollinazione è uno dei fattori più importanti per lo sviluppo delle piante e sebbene non solo le api contribuiscano a questa funzione, di sicuro svolgono un ruolo fondamentale.

TUTANKHAMON E LE API

A proposito della sinergia tra esseri umani e api, è interessante notare come quest’ultime abbiano insegnato all’uomo la tecnica della mummificazione. Quando un animale che le api percepiscono come di grossa taglia (ad esempio lucertole, coleotteri e topi) invade l’alveare, esso viene ucciso a colpi di pungiglione: le api però non sono in grado di trasportarne la carcassa, per loro troppo pesante, fuori dal loro habitat e per evitare i possibili pericoli causati dalla decomposizione lo ricoprono di propoli; essendo un potente antibiotico, tale sostanza preserva l’ospite indesiderato trasformandolo in una mummia. Intorno al 4000 a.C. gli antichi Egizi si accorsero di questo fenomeno e ne fecero uso in campo medico: i sacerdoti lo usarono per mummificare le spoglie dei faraoni (la propoli infatti viene rilevata in tutte le mummie dell’antico Egitto, compresa quella di Tutankhamon che è giunta ai giorni nostri praticamente intatta), mentre i medici la impiegarono per trattare le infezioni della pelle, dell’apparato respiratorio e come cicatrizzante e disinfettante delle ferite.

LE API INVERNALI

L’arrivo dell’inverno, con i suoi freddi e il progressivo accorciamento delle ore di luce, viene percepito nitidamente anche dalle api, che in questa stagione entrano in una fase di riposo, quasi un letargo, che lo porta anche a raggrupparsi all’interno del nido, nella zona più riparata e calda e in diretta corrispondenza delle provviste – miele e polline – per formare il cosiddetto “glomere”; questa azione dura fino a quando la temperatura interna raggiunge i 20-22°C. Non tutti sanno però che le api che nascono in inverno, destinate a superare tale periodo rigido per far sopravvivere la famiglia, sono molto più longeve delle api che vengono al mondo in estate: mentre per le secondo la speranza di vita si aggira intorno alle tre settimane, le prime possono arrivare anche a raggiungere i tre mesi di esistenza. Ciò dipende da alcune differenze fisiologiche che maturano inevitabilmente quando la stagione calda volge al termine: fin dalla nascita, le api “invernali” vengono allevate con una quantità di polline superiore a quella prevista per le loro sorelle che hanno avuto i natali nel periodo primaverile o estivo. In conseguenza di ciò, avvicinandosi all’inverno, la maggior parte delle operaie vede svilupparsi le ghiandole ipofaringee e altri “corpi adiposi” che contengono, oltre al grasso, anche proteine: tali sostanze andranno a costituire delle vere riserve nutritive e si riveleranno decisive nell’assicurare alle api una maggiore longevità. Infine, tramite il meccanismo della trofallassi le api riescono, attraverso le loro linguette dette ligule, a scambiarsi il miele che servirà loro come carburante per far vibrare i muscoli pettorali (un procedimento analogo a quello utilizzato dalle colonie di pinguini, che devono sopravvivere anche a 50° sotto zero): questo è uno dei più brillanti esempi esistenti in natura di come un essere vivente, seppur in condizioni assolutamente proibitive, possa resistere tramite una proficua collaborazione con i suoi simili e l’intero ecosistema.[:en]Do we really know much about the world of bees? Did you know that our relationship with these industrious insects dates back more than 9 thousand years? That Man learned the technique of mummification from bees? And what do bees do in winter? This post is devoted to revealing a number of fascinating facts, and debunking some myths about bees.

A PREHISTORIC ALLIANCE

One of the most enduring of all “socio-economic” partnerships that have formed spontaneously between different animal species is undoubtedly that established between man and bees. The earliest iconographic image testifying to this alliance, depicting a beehive and a honey gatherer, dates to about 9,000 year ago and was found in 1921 on the wall of Cueve della Araña, a group of caves in Valencia, eastern Spain. Beekeeping proper began shortly after, when following the Neolithic revolution, human beings went from being nomadic hunter-gatherers to sedentary agriculturalists, and began to raise social bees inside containers.

WHO SAID THAT WITHOUT BEES LIFE ON EARTH WOULD BECOME EXTINCT?

If thbee disappeared off the face of the Earth, man would only have four years left to live!” This famous quote, attributed to none other than Albert Einstein, appeared for the first time in a leaflet distributed by the National Union of French Beekeeping during a demonstration held in Brussels in 1994 to protest what was considered unfair competition from imported honeys.  However, there are no sources confirming the famous scientist’s paternity of the aphorism. Some say the phrase was coined by an American entomologist who presented it as that of the discoverer of relativity to give it more celebrity, while others claim it was entirely invented by the UNAF.

Whoever was the author, they overestimated the role of bees in safeguarding biodiversity. Before Christopher Columbus and European colonisation, there were no bees in America, and the same could be said for Oceania. These insects are an import from the Old Continent, and the history of pre-Columbian and Paleo-Australian civilisations shows that although life without bees would be more difficult for biodiversity, it would not be impossible.

TUTANKHAMUN AND BEES

With regard to the synergy between human beings and bees, it is interesting to note how the latter taught man the technique of mummification. When an animal perceived by the bees to be large (lizards, beetles or mice for example) invades the hive, it is stung to death. However, the carcass is too heavy for the bees to carry out of their habitat, and to protect against prevent possible dangers from decomposition, they cover it with propolis, which being a powerful antibiotic, preserves the invader’s corpse and transforms it into a mummy.

Around 4000 B.C., the Ancient Egyptians discovered this phenomenon, and made use of it for medical purposes. The priests used propolis to mummify the remains of the Pharaohs (propolis has been detected in all Ancient Egyptian mummies, including that of Tutankhamun, which has survived to this day almost intact), while physicians used it to treat infections of the skin and respiratory system, and to cicatrize and disinfect wounds.

BEES IN WINTER

The coming of winter with its cold and reduced daylight hours is also sharply felt by bees, who enter a phase of repose, almost hibernation, during this season. They cling tightly together in the warmest, most sheltered part of the nest, close to the stored honey and pollen, forming the so-called “winter cluster”, which continues until the internal temperature reaches 20-22°C.  However, not everyone knows that the bees hatched in winter to get the colony through winter are much longer-lived than those hatched in the summer. While the life span of the latter is around three weeks, the former can live as long as three months.  This depends on certain physiological differences that inevitably occur naturally when summer comes to an end. From the time they hatch, “winter” bees are reared with a greater quantity of pollen than that provided for those hatched in spring or summer.

Consequently the hypopharyngeal glands and other “adipose” tissues of most worker bees, which contain protein as well as fat, begin to enlarge as winter approaches. These substances make up food reserves which will be decisive in ensuring the bees have an unusually long lifespan.  Finally, through a process known as trophallaxis, bees are able to use their tongues to directly transfer to one another the honey that will serve as fuel to vibrate their flight muscles. (Similarly, colonies of penguins who have to survive temperatures as low as minus 50° also huddle closely together). This is one of the most brilliant examples in nature of how a living being is able to survive absolutely prohibitive conditions through fruitful cooperation with its fellows and the entire ecosystem.

Storia del Miele, dal Medioevo ai mieli uniflorali

Storia del Miele, dal Medioevo ai mieli uniflorali

Continua la nostra storia del miele. Da unico e prezioso dolcificante dell’età antica a comprimario dello zucchero, il miele ha dovuto reinventarsi, aumentando la propria qualità e valorizzando le sue caratteristiche di prodotto territoriale.

Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, anche il miele visse il suo particolare “Medioevo”: se da un lato esso veniva ancora considerato un alimento prezioso e ricercato, dall’altro dovette affrontare un periodo di crisi, derivato dal fatto che il lavoro apistico non subì per secoli nessuna innovazione di sorta. Nel millennio che va dal V al XV secolo, l’unico documento politico rinvenuto inerente al miele è il Capitolare de Villis emanato nel 759 da Carlo Magno secondo il quale chiunque avesse un podere doveva tenere anche api e preparare miele e idromele; chi fosse stato sorpreso a rubare miele coltivato era punibile con multe di varie entità, chi invece avesse trovato un favo abbandonato ne diventava proprietario.

Il Medioevo considerava il miele un bene prezioso, con pene e sanzioni per chi lo rubava o tralasciava di allevare le api di un proprio podere

RINASCIMENTO DI DOLCEZZA

Presso le aristocrazie europee del periodo rinascimentale, in termini di gusto, la dolcificazione, ignorata nell’Età di Mezzo che preferiva concentrarsi sulle spezie piccanti, divenne una vera e propria moda. Si preparavano intingoli dai sapori ibridi, che pervadevano l’intera sequenza delle portate di un pasto, divenuto, per arditezza di afrori e ricchezza di colori, un evento spettacolare, destinato a stupire più che a nutrire.

I sapori originari dei cibi venivano pressoché coperti e solo nel XVI secolo si arrivò a una separazione dei gusti, rinviando il dolce alla fine del banchetto. Il miele continuò ad essere utilizzato in medicina, soprattutto nell’ambito delle scienze galeniche, secondo le quali il corpo umano è costituito di un insieme di umori a cui sono associate le qualità fondamentali di caldo, freddo, secco e umido, che ciascuno deve tenere in equilibrio: al miele venivano attribuite la caratteristiche del caldo e del secco, adatte, per contrasto, a persone dal segno zodiacale d’acqua.

Secondo la filosofia galenica (dal medico e filosofo Galeno, 129-201 d.C.) i segni d’acqua assiderati dalle qualità del freddo e dell’umido e di temperamento flemmatico, dovevano ricercare alimenti caldo-secchi: carne di vitello, cacciagione, formaggi stagionati, pesce salato, cipolle, carote, castagne, noci, frutta secca, miele, abbinati a vini bianchi frizzanti.

L’AVVENTO DELLO ZUCCHERO

Nell’Età Moderna si assistette ad un’importante evoluzione dell’apicoltura in termini sia scientifici che tecnici. Premessa di tutto ciò fu la migliore conoscenza della vita e della struttura delle api: nel 1586 lo spagnolo Luis Mendez de Torres parlò per la prima volta di vertice gerarchico dell’alveare con a capo un’ape femmina e ovificatrice; pochi anni dopo gli inglesi Charles Butler e Richard Remnant dimostrarono rispettivamente che i fuchi erano maschi e le api operaie femmine. Proprio in questa fase storica, però, il miele dovette subire la concorrenza di un “nemico” formidabile, lo zucchero.

Dalla fine del Seicento ai primi dell’Ottocento venne sviluppata nelle isole caraibiche la coltivazione della canna da zucchero, mentre in Europa fu sperimentata la barbabietola. Lo zucchero divenne di uso comune solo in pieno Settecento e da quel momento iniziò un’espansione che portò la sua produzione ad aumentare di 20 volte tra il 1850 e il 1950. In termini di prezzo lo zucchero, inizialmente più caro (nella Pianura Padana ancora al momento dell’Unità d’Italia l’«oro bianco» costava più del miele), divenne di gran lunga più economico e ciò favorì il suo sviluppo presso le classi popolari. Anche la politica si inserì in questo contesto eco-gastronomico: nel 1806 infatti Napoleone mise in atto il blocco continentale contro l’Inghilterra, principale esportatrice di zucchero di canna. Ma il bisogno del “nuovo” dolcificante, come già accennato, cresceva a vista d’occhio e per supplirvi si dovette ricercare un’alternativa alla canna da zucchero: la barbabietola, appunto.

VERSO LA RAZIONALIZZAZIONE DELL’ALVEARE

Per il miele sembrava dover iniziare un periodo di marginalizzazione. Se non voleva scomparire del tutto, esso doveva puntare sulle sue intrinseche qualità, basata su tre punti essenziali: 1) un prezzo concorrenziale; 2) un sapore ancora più buono e caratteristico; 3) l’utilizzo di una tecnica di produzione più efficiente. Si fece promotore di queste istanze l’avvocato Luigi Savani, che nel 1811 scrisse un trattato dal titolo Modo per conservare le api e per estrarre il miele senza ucciderle in cui propose un’apicoltura semi-razionale che rinunciasse alla pratica dell’apicidio e producesse un miele di maggiore qualità tramite “castrazione”, cioè il prelevamento selettivo dall’alveare di favi contenti solo miele.

In questa direzione si mossero alla fine dell’Ottocento il maggiore Von Hruska e l’abate Collin, i quali idearono due invenzioni che permisero di produrre un miele sempre più pulito e libero da sostanze e sapori estranei: il primo creò lo smielatore, che permetteva di estrarre il miele senza distruggere i favi; il secondo perfezionò l’escludiregina, una griglia che, consentendo il passaggio delle api ma non della più voluminosa regina, permetteva di produrre miele in una sezione dell’alveare, evitando che nei favi riservati allo stoccaggio del miele da parte delle api fosse anche presente covata.

DAL MIELE AI MIELI

Nel Novecento si sviluppa una maggiore attenzione alla provenienza botanica dei mieli: gli importanti studi di alcuni pionieri melliflui – tra cui l’instancabile Don Giacomo Angeleri (Gamalero 1877 – Reaglie 1957), fondatore della Federazione Apistica Piemontese e autore presso al rivista L’apicoltore moderno – permisero di mettere in atto negli anni Settanta una caratterizzazione dei mieli uniflorali, con le prime analisi melissopalinologiche (origine geografica e botanica del miele), l’esplorazione e la quantificazione dei granuli pollinici rimasti come residuo in un miele, per dimostrarne la provenienza. Da questo momento in poi non si può più parlare di miele ma di “mieli”. Oggi solo in Italia ne esistono più di 50 tipi: si va da quello di acacia (il più utilizzato) a quello di arancio, da quello d’eucalipto a quello «millefiori», dal miele di sulla, a quello di corbezzolo, di eucalipto, di girasole, di tarassaco, di limone, di mandarino, di rododendro, di tiglio, di rosmarino e di moltissimi altre piante e fiori.

Brezzo produce 22 varietà di miele italiano, valorizzando e tutelando l’enorme patrimonio apistico del nostro Paese.

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Storia del Miele, dalla Preistoria alla Grecia Antica

Storia del Miele, dalla Preistoria alla Grecia Antica

Vi racconteremo una dolcissima quanto affascinante storia: quella del miele. Conosciuto fin dalla preistoria, il miele era il più prezioso – perché unico – dolcificante dell’epoca antica. Utilizzato come corroborante e unguento da Egizi e Babilonesi, tra i Greci divenne «cibo degli dei».

Anche se la parola «miele» sembra derivare dall’ittita melit, la storia di questo celebre dolcificante è molto più antica di quella dell’omonima popolazione indoeuropea che abitò l’Asia Minore nel II millennio a.C. La presenza di piante che producono nettare e polline è documentata tra i 100 e 150 milioni di anni, mentre le prime api compaiono sulla Terra fra i 50 e i 25 milioni di anni fa. Non sono ancora però le api sociali, – cioè le api che agiscono come organismo collettivo – che, secondo gli studi, avrebbero un’età che va dai 20 a 10 milioni di anni – l’essere umano, a titolo di paragone, fa la sua comparsa sulla Terra solo un milione di anni fa!

Anche se la parola «miele» sembra derivare dall’ittita melit, la storia di questo celebre dolcificante è molto più antica di quella dell’omonima popolazione indoeuropea che abitò l’Asia Minore nel II millennio a.C. La presenza di piante che producono nettare e polline è documentata tra i 100 e 150 milioni di anni, mentre le prime api compaiono sulla Terra fra i 50 e i 25 milioni di anni fa. Non sono ancora però le api sociali, – cioè le api che agiscono come organismo collettivo – che, secondo gli studi, avrebbero un’età che va dai 20 ai 10 milioni di anni. L’essere umano, a titolo di paragone, fa la sua comparsa sulla Terra solo un milione di anni fa!

IL BASTONE E LA BIBBIA

Già nella Preistoria si conosceva la bontà del miele: i nostri antichissimi progenitori erano soliti procurarselo intingendo un bastone nei nidi d’ape dentro i tronchi degli alberi e tra le rocce. Fonte insospettabile di questa modalità di procacciamento è la Bibbia: nel I libro di Samuele si legge infatti che Gionata, figlio del re Saul, «allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (I Sam. 14,27). Una prima testimonianza artistica di questa ricerca del miele ci viene offerta da un dipinto, databile intorno al 7000 a.C., eseguito sulla parete di una grotta sita a Cueva de la Aragna (Spagna orientale): in tale pittura rupestre si nota una figura umana, arrampicatasi fino al nido d’api tramite delle liane, nell’atto di prendere con una mano dei favi di miele mentre nell’altra tiene un contenitore da trasporto.

LA NASCITA DELL’APICOLTURA E LA LUNA DI MIELE

Il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà ebbe come conseguenza l’abbandono di questi sistemi primitivi di procacciamento e la nascita dell’apicoltura. Pare che i primi a sviluppare questa pratica furono – intorno al 3000 a.C. – gli Egizi, i quali usavano deporre accanto alle mummie grandi coppe o vasi ricolmi di miele per il loro viaggio nell’Aldilà (alcuni di questi recipienti sono stati recentemente rinvenuti durante gli scavi ancora perfettamente conservati).

Dalla decifrazione dei geroglifici risulta che le ricette a base di miele erano impiegate non solo ad uso alimentare ma anche medico, per la cura di disturbi digestivi e per la produzione di unguenti per piaghe e ferite.

L’espressione “luna di miele” nacque in questi anni remoti, probabilmente da usanze babilonesi. Il popolo mesopotamico definiva in questo modo il mese successivo al matrimonio di una coppia: in tale periodo il padre della sposa aveva l’obbligo di rifornire il genero del liquido dorato affinché egli si ristorasse e fosse aiutato nelle “fatiche amorose”. D’altronde anche la medicina ayurvedica, già nel 2700 a.C. circa, considerava il miele non solo dolcificante ma anche purificante, dissetante, vermifugo, antitossico, regolatore, refrigerante, stomachico, cicatrizzante e, appunto, afrodisiaco.

IL CIBO DEGLI DEI

Nella Grecia antica il culto per l’ambrosia, il “cibo degli dei”, portò a un forte interesse verso il comportamento delle api, il cui allevamento veniva di solito affidato a uno schiavo esperto in materia chiamato melitouros. Scrissero di miele e apicoltura scrittori come Omero (che narra la raccolta del miele selvatico), Pitagora (che considerava il miele un elisir di lunga vita) e Aristotele (che descrive minuziosamente il comportamento delle api).

Le conoscenze elleniche in materia furono ereditate dai Romani. Anche presso la civiltà latina possiamo riscontrare un forte interesse verso il miele, visto che i più grandi autori del periodo hanno trattato l’argomento (tra questi Virgilio nel IV libro delle Georgiche e Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale). Anche nella romanità il lavoro apistico era affidato a schiavi “eruditi”, gli apiarii, che con la loro competenza garantivano un reddito elevato ai loro padroni.

I Romani importavano grandi quantitativi di miele da Creta, Cipro, Spagna e soprattutto Malta; da quest’ultima pare anche derivare il nome originale Meilat, appunto «terra del miele».


L’ape nella letteratura. Dante, Marx e la superiorità delle api

L’ape nella letteratura. Dante, Marx e la superiorità delle api

Capitolo II – Dante, Marx e la superiorità delle api
Leggi qui il primo capitolo

Neanche il padre della letteratura italiana fu immune al fascino di questi piccoli volatili. Nella Divina Commedia, più precisamente nel XXI canto del Paradiso, Dante Alighieri paragona il tripudio degli angeli presenti nella Candida Rosa (luogo dove risiedono i beati del Paradiso) con una straordinaria metafora apistica, ricca di movimento e di meraviglia:

Sì come schiera d’api che s’infiora
una fiata e una si ritorna
là dove il suo laboro s’insapora.

LE API VIZIOSE

Nel XVI secolo il miele venne soppiantato dallo zucchero di canna, più facile da conservare e dal sapore “esotico”: l’interesse letterario per le api andò scemando. Ma il ‘700, attraversato da profonde riflessioni socio-politiche e morali, riscoprì le api in chiave simbolica.

Si può citare come esempio il poemetto satirico La favola delle api, scritto nel 1705 dal medico e filosofo olandese Bernard de Mandeville. Il sottotitolo del saggio, Vizi privati e pubbliche virtù, esplicita la critica che l’autore muove alla società in cui vive, ormai avviata allo sviluppo industriale. Secondo lo spirito libertario e libertino dell’autore, i vizi privati sostentano le virtù pubbliche, proprio come fanno le api nell’alveare. Ciascuna lavora – per istinto (quindi per vizio) ad un lavoro particolare, che armonizzato produce il miracolo del miele. Gli uomini, conclude il filosofo, dovrebbero dunque non vergognarsi di avere dei vizi, perché sono dotazioni naturali che non contraddicono i bisogni della comunità.

LE API OPERAIE

Un rimando alla laboriosità dell’ape non poteva di certo mancare nell’opera di Karl Marx, filosofo tedesco e primo teorico del comunismo. Nella terza sezione del primo de Il Capitale (1867) egli vuole chiarire in che modo il lavoro degli animali sia diverso da quello degli esseri umani e per farlo utilizza l’esempio dell’ape. Pur costruendo degli alveoli perfetti, che non temono il confronto con più di un’opera architettonica umana, anche l’ape più abile si distingue dal peggiore degli architetti poiché quest’ultimo ha costruito la sua opera nella sua testa prima che nella materia concreta. Il processo lavorativo umano approda quindi a un risultato che già preesiste idealmente nel cervello del lavoratore. Egli, a differenza degli insetti, non opera soltanto un cambiamento di forma nelle materie naturali, ma vi realizza nello stesso tempo il suo scopo; scopo di cui egli ha coscienza, che determina come legge il suo modo d’azione e al quale subordina la sua volontà.

Una curiosità di “genere”. Fino al Settecento si pensava che al comando delle api stesse un «Re», un’ape di sesso maschile che rispecchiava il diritto prevalentemente maschile di esercitare il potere sovrano.

L’APE POETICA

Tra i poeti contemporanei che amarono l’ape ci fu Emily Dickinson, poetessa statunitense vissuta nella seconda metà dell’800. Lo spirito lirico e romantico della Dickinson vede nell’ape il mistero della primavera, che risveglia nello spirito il desiderio di vita e di bellezza.

Nel nome dell’Ape –
E della Farfalla –
E della Brezza – Amen!

L’APE FEMMINISTA

La scoperta del matriarcato delle api è una conquista del XVII secolo. Da allora l’ape ha prodotto una messe di nuovi spunti letterari. Come in Sylvia Plath (1932-1963), tormentata poetessa di Boston il cui padre era entomologo. Nella poesia La riunione delle api, l’alveare diventa il simbolo della società femminile asservita a quella patriarcale, che irrompe con la violenza del predatore a rubare il miele e a violare il segreto di un mondo totalmente diverso da quello maschile:

Il bianco alveare, compatto come una vergine, occlude
La sua fecondità, il suo miele, brusisce quieto.

Fumo si spande e serpeggia nella radura.
La mente dell’alveare pensa che questa è la fine.

IN DIFESA DELLE API

La recente e drammatica condizione delle api, la cui popolazione sta drammaticamente diminuendo, con conseguenze catastrofiche per l’ecosistema mondiale (ricordate la celebra frase di Einstein, «se l’ape scomparisse dalla terra, all’umanità resterebbero quattro anni di vita»), ha portato l’ape a rivestire un nuovo ruolo simbolico. Quella di guardiana dell’ambiente, un essere i cui atteggiamenti, pur guidati da istinti naturali, sono orientati alla tutela del futuro del mondo. Ecco che l’ape, dopo essere stata simbolo dell’operosità, della comunità, della condizione operaia e femminile, diventa entità qualitativamente superiore a quella umana, perché dotata di una perfezione che preserva la natura e non la distrugge. Un esempio ironico e pungente di questa nuova visione si trova nel libro di Franco Marcoaldi, Animali in versi (Einaudi, 2006), in cui il protagonista, un «rubicondo apicoltore», non può far altro che ammettere la netta supremazia degli insetti:

Il mio vicino di casa
è un apicoltore rubizzo
e bonario, un fanciullo
che racconta novelle.
Del matematico mondo
delle api mi parla da anni,
eppure ogni volta lo ascolto
incantato, come quando sostiene
che ciascun alveare
è la prova palmare
della netta supremazia degli insetti.

«Meniamo gran vanto delle nostre città:
ma citami uno, tra mille architetti,
in grado di fare non un muro che sale,
ma un muro che scende. Senza tanto
strillare, le anonime api
lo fanno da sempre. Attaccate
al soffitto raggiungono il suolo
rimanendo sospese al proprio cantiere
e prive di metro, filo a piombo
e compasso, disegnano esagoni
di misure perfette, garantendo
in tal modo – nel minimo spazio –
il massimo numero di uguali cellette».

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