Senza di lei non esisterebbe l’alveare. Non ci sarebbero il miele, il polline e la pappa reale. In definitiva, non ci sarebbero le api, non nella forma in cui le conosciamo.
Lei è l’ape regina, fondamento di ogni famiglia, unica ape feconda, capace di deporre quantità impressionanti di uova per garantire la sopravvivenza della sua stirpe e, all’occorrenza, spostare le colonie verso una nuova casa.
Seguiteci e scoprite tutti i segreti della regina, l’ape più importante dell’alveare.
Come nasce una Regina?
La regina è l’ape più grande, la più longeva è l’unica feconda, capace cioè di generare una nuova colonia, o «famiglia». Queste differenze sono il frutto di un’alimentazione speciale. Dopo la deposizione dell’uovo, le operarie svezzano le larve reali per circa 15 giorni con la pappa reale, che sarà l’unico alimento della regina per tutta la vita. Dopo questo periodo la regina può uscire dalla sua cella, anch’essa speciale: non è infatti posta in orizzontale, ma in verticale e ha le fattezze di un’arachide.
La lotta per il trono
Una colonia può allevare fino a 30 «principesse», dette «regine vergini». Quando le api percepiscono che la reggente non è più in grado di svolgere il suo ruolo, devono assicurare la la sopravvivenza della colonia. Costruiscono allora le celle reali per far nascere una nuove regine. Quando le «regine vergini» si schiudono, ciascuna compete per il proprio regno fino a che ne rimane in vita una sola. A volte accade che una vergine, nata prima delle altre, uccida le “sorelle” mentre sono ancora nella loro cella. Se più vergini vengono alla luce contemporaneamente, tutte meno una abbandonano l’alveare seguite da un gruppo di “fedelissime” (sciamatura). Accade questo perché nell’alveare può rimanere una sola regina.
Il canto della regina
Nel momento in cui vengono alla luce (o addirittura mentre sono ancora nella loro cella reale), le «regine vergini» cominciano a emettere un particolare stridìo, simile al suono di una trombetta. È il «canto della regina» e si pensa abbia diversi scopi.
È un «peana di guerra» per mettere sull’attenti tutte le pretendenti al trono e cominciare la lotta per il sopravvento.
È un «orazione politica» per procacciarsi i consensi delle api della colonia, al fine di farsi eleggere nuova regina.
È una «serenata» per i fuchi – ovvero i maschi delle api – per farsi seguire, fecondare e dare origine ad una nuova famiglia.
È un segnaledipartenza, che la regina vergine in procinto di sciamare emette per ritardare la nascita di altre vergini (in questo caso le operaie inibiscono le altre vergini nelle loro celle, aggiungendo strati di cera per impedirne la fuoriuscita)
Potere al popolo
Per quanto l’ape regina sia in grado di influenzare il comportamento delle sue operaie grazie alla produzione di feromoni, l’alveare è un super-organismo, ovvero una forma di collettività in cui le decisioni sono prese attraverso una specie di maggioranza “senziente”. Quando questa maggioranza percepisce la fine di una regina, fa di tutto per agevolare un cambio al vertice deponendo uova nelle celle reali. Caso limite è la sciamatura in cui le operaie agiscono “democraticamente”: si crede infatti che singolarmente o a piccoli gruppi possano decidere di seguire la vecchia regina pronta al distacco, o restare con la nuova che garantirà la sopravvivenza della famiglia.
Nutrice e assassina
Al contrario di quello delle operaie, dentellato e irregolare, il pungiglione della regina è liscio. Il suo scopo è duplice: quando è gravida, la regina lo utilizza per deporre le uova, come fosse una pipetta; in caso di combattimento, invece, il pungiglione diventa un affilato stiletto, pronto a trafiggere le rivali.
Il volo nuziale
Una regina può deporre fino a 2 mila uova al giorno, 250 mila l’anno per un massimo di 5 anni di vita. Per poterle fecondare accumula il seme dei fuchi all’interno del suo addome, rilasciandolo gradualmente. L’accoppiamento non può certo essere quotidiano, ma avviene una sola volta, nel periodo del volo nuziale. La regina vergine si solleva in aria seguita dalla «cometa di fuchi», un nugolo composto da un centinaio di maschi. L’accoppiamento multiplo fornirà alla regina il materiale genetico per gli anni a venire fino a che, esauritosi, darà vita a uova non fecondate, che produrranno solo api maschio. È la cosiddetta «regina fucaiola» che, se individuata dalle operaie, verrà prontamente sostituita.
Nutrita e riverita
L’unico scopo della regina è continuare la specie. Non deve preoccuparsi di nulla: viene seguita da uno sciame di ancelle che la puliscono, la nutrono e la difendono, assistendola in ogni esigenza. Ma la regina è gelosissima del suo ruolo: mentre le api operaie la riveriscono, lei rilascia il feromone reale, un potente inibitore degli organi sessuali che ha la funzione di renderle sterili.
[:en]
Without the Queen Bee, a hive would not exist. There would be no honey, pollen or royal jelly. There wouldn’t even be bees, at least not as we know them.
She reigns supreme, the foundation of the hive and the head of the family, the true queen bee. She lays large quantities of eggs to ensure the hive’s continued survival and will force the colony to migrate if necessary. The hive revolves around her.
We have seven secrets of the queen bee, the most important bee in any hive.
How is the Queen born?
The queen is the largest bee in the hive, the one who lives the longest and is the sole reproducer in a hive, all thanks to a special diet. After the queen lays her eggs, of which some will be unfertilized and become male drones and others will be fertilized and either become workers or virgin queens dependent on diet, the worker bees feed all the royal larvae a diet of only royal jelly for 15 days. Royal jelly is the only thing a Queen Bee eats throughout her life. After this period, the queen emerges from her cell, which is itself unique to the regular hexagonal shape. It lays horizontally in the shape of a peanut.
The struggle for the throne
A hive can breed up to 30 ‘princess’ bees, which are truly called virgin queens in order to ensure their survival. In fact, when worker bees sense that their current queen can no longer lay eggs, they will begin building up royal cells and feeding more fertilized larvae to ensure the birth of a new queen. When more than one virgin queen is hatched, they will fight to the death. The winning virgin queen will ensure her dominance by destroying any other royal cells that may still be unhatched. If a hive becomes too large, the old queen will leave with a ‘swarm’ of faithful workers and half the hives reserves to create a new colony.
The queen’s song
When the virgin queens emerge from their cells (and even sometimes when they are near emerging), they begin emitting a high-pitched buzzing called piping that sounds similar to a trumpet. It is the “queen’s song” and is thought to have a few different purposes:
A “warcall” that signals their location so that all ‘pretenders to the throne’ may come and fight the queen,
A “politicalcampaign” to obtain the consensus of the worker bees to be regarded as their new queen,
A “serenade” to the drone male bees so that they will find the queen for her nuptial flight,
A “warning” that the virgin queen will leave on her nuptial flight and that the workers must prevent the emergence of other virgin queens by adding more layers of wax on top of their cells.
Power to the people
Although the queen is able to influence the behaviour of all the bees in the hive thanks through her pheromones, the hive functions as a type of ‘super-organism’ that thinks collectively. It is called eusocial and means that the bees make decisions for the collective of the hive through a kind of ‘sentient’ majority. When this majority senses the near-end of an old queen, they will do everything in their power to ensure their survival by feeding more larvae with royal jelly to create virgin queens. The only limitation on this group think is in the case of swarming. Worker bees will act ‘democratically’ and choose either individually or in small groups to leave with the old queen or remain with the new one to ensure the continued survival of the hive.
Nurse and assassin
Contrary to the workers, which have notched and irregular stings, the queen’s is smooth. This is for two reasons: when she is pregnant it functions as a pipette to lay eggs and when she is in combat, the sting is like a sharp knife, ready to pierce rivals.
The nuptial flight
A queen bee is capable of laying up to 2000 eggs a day, 250 000 per year, for a maximum of 5 years. To do this, she accumulates the semen from mating drones in her belly, only releasing it by choice when laying eggs. Mating does not occur daily. In fact, it only happens once in what is called the nuptial flight. When a virgin queen emerges, she will leave the hive followed by a swarm of drones (male bees) who will compete to mate with her in flight. She will mate with multiple drones, collecting enough genetic diversity from their semen to lay eggs throughout her lifetime. The queen can sense when worker or drone bees need to be laid and selectively chooses to fertilize (worker larvae) eggs or leave them unfertilized (drone larvae) when laying. The queen is the only bee that can truly reproduce in a hive. Rarely there are laying worker bees, that only produce drones, and if detected are promptly replaced in the hive.
Nourished and revered
The queen has a singlepurpose: to reproduce. She doesn’t even need to think about the basic necessities of survival. A small swarm of maiden bees follows her constantly, cleaning her and feeding her, nurturing her and defending her to the death. However, the queen is a jealous queen. She releases a royal pheromone that is a powerful inhibitor of the sexual organs in the worker bees in order to ensure their sterility.
Le vacanze sono alle porte e con esse la possibilità di dedicarsi alle proprie passioni. Da amanti del miele quali siamo, abbiamo raccolto in questo post qualche consiglio per approfondire la propria conoscenza delle api, una passione che che la famiglia Brezzo si tramanda da tre generazioni.
Potevamo consigliarvi manuali e saggi, libri tecnici o articoli di settore. Abbiamo optato invece per alcuni suggerimenti di visione e di lettura molto godibili e “leggeri”. Si tratta di un documentario, di un film e di un libro che ci hanno davvero colpiti perché, raccontando di api e di apicoltori, in realtà narrano una parte importante della nostra vita: il rapporto che abbiamo con l’ambiente e il suo fragile equilibrio, all’interno del quale le api giocano un ruolo tutt’altro che secondario.
1. UN DOCUMENTARIO
MORE THAN HONEY
Il più straordinario documentario sulle api mai prodotto (almeno finora) è il capolavoro di Markus Imhoof, More Than Honey. Il film, uscito nel 2013, ha richiesto 5 anni di riprese e migliaia di km percorsi dal regista, che ha condotto la sua ricerca sui 4 continenti.
Il risultato è spettacolare: per immagini, intensità del racconto, incredibili macro sul mondo segreto delle api, storie, personaggi. More then Honey racconta il rapporto secolare tra l’uomo e le api, la loro funzione cruciale per la natura e la più che mai attuale sindrome da spopolamento (un fenomeno ancora poco conosciuto per il quale le colonie di api periscono bruscamente) che si è diffusa in modo preoccupante negli ultimi anni. Il documentario di Imhoof, attraverso testimonianze dirette e specializzate, richiama la nostra attenzione sull’importanza delle api, dimostrando che Einstein aveva forse esagerato con la sua celebre sentenza sulle api («quando le api scompariranno dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita»), eppure non era andato così lontano visto che: «senza api, un terzo di tutto ciò che mangiamo probabilmente non ci sarebbe».
L’opera di Imhoof merita una visione anche solo per la tecnica di ripresa: micro-videocamere piazzate sulla schiena degli insetti ci svelano l’interno degli alveari, si addentrano tra stigmi e ovuli dei fiori, seguendo gli sciami in volo. Ape regina, api operaie e fuchi sembrano formare un unico organismo prodigioso, quello che permette ai fiori e alle piante di generare la vita vegetale sul pianeta.
2. UN FILM
LE MERAVIGLIE
Sotto la sapiente regia di Alice Rohrwacher, questa favola contemporanea è un film che tutti gli amanti delle api dovrebbero guardare con attenzione. La regista di Corpo celeste e del recente Lazzaro Felice racconta la delicata e semplice vicenda di una famiglia di apicoltori che hanno scelto produrre miele tra difficoltà economiche e famigliari, guidati da una sincera dedizione alla natura e al paesaggio rurale.
L’arrivo della televisione e della retorica del «tipico» e dell’«autentico» metterà in crisi i protagonisti e farà esplodere non solo le tensioni già presenti all’interno del nucleo familiare, ma le stesse che intercorrono tra i concetti di campagna e città, di rurale e urbano, di innovazione e tradizione.
«L’apicoltura è un’attività che è tutt’uno con il vivere», ha detto la regista del suo film. «Mi interessava mostrare come la vita e il lavoro in campagna siano profondamente collegati. L’ho voluto raccontare perché lo spettatore si ponga delle domande sul come si vive in altre parti della società, separando questi due aspetti: il mestiere e il tempo libero».
Un film toccante, in cui le api e il loro rapporto con i protagonisti diventano il simbolo di un legame, quello con la natura, che troppo spesso banalizziamo o diamo per scontato.
3. UN LIBRO
STORIA DELLE API (edizioni Marsilio)
«L’umanità può imparare dalle api», ha detto Maja Lunde, autrice di Storia delle api, testo definito come il più completo – e interessante – libro mai scritto sui più laboriosi insetti del mondo. «Mentre lavoriamo per una vita migliore per noi stessi e per i nostri figli, le api lavorano per l’alveare, cioè per tutti», continua l’autrice, «il pianeta è il nostro alveare, ogni cosa è collegata all’altra».
Conosciuta per i suoi libri rivolti ai ragazzi, La storia delle api è il suo primo libro per adulti della Lunde. E che libro! Un esordio poderoso, epico, che ha suscitato un vero e proprio “vespaio” alla sua uscita, nel 2015. Non si tratta infatti di una narrazione di armonie bucoliche, piuttosto la visione ispirata e dolente di un mondo attraversato da forme di vita che si intrecciano le une alle altre. E che, attraverso le api, interpellano la natura umana e il suo rapporto con il creato.
Il libro non è un trattato, ma un vero e proprio romanzo, dalla trama accattivante, capace di mescolare le storie di tre protagonisti su di un arco temporale di 300 anni, tutti connessi attraverso il mondo delle api e della loro – possibile – scomparsa. La lettura procede spedita tra le vite di William, biologo inglese di metà Ottocento; George, apicoltore contemporaneo che lotta contro la moria delle api; e Tao, ragazzo cinese del 2098, la cui attività principale è l’impollinazione manuale, dal momento che le api hanno cessato di esistere.
Leggere La storia delle api è un po’ come leggere la nostra storia, mettendo in discussione le scelte che stiamo intraprendendo, interrogandoci sulle cose che davvero vogliamo salvare per il futuro di chi verrà.
A fine maggio termina la raccolta del miele d’acacia, una delle qualità più conosciute, utilizzate e apprezzate, nonché una delle prime ad essere raccolte. In tutta Italia, delicatamente, gli apicoltori cominciano a estrarre il prezioso “nettare” dalle arnie.
Vi siete mai chiesti come è fatta un’arnia e come funziona questo strumento di lavoro? Ve lo spieghiamo in questo post.
UNA DEFINIZIONE DI ARNIA
L’arnia è una struttura artificiale creata dall’uomo per facilitare la crescita di una colonia di api e la successiva raccolta del miele. Un’arnia accoglie fino a 90 mila individui ed è un microcosmo razionale e organizzato: il suo compito principale è quello di dividere la zona della covata (nido) da quella della produzione e stoccaggio del miele (melario), al fine di poter estrarre i favi che lo contengono senza danneggiare le api.
L’ITALICA-CARLINI
La storia del miele ci ha consegnato molti tipi di arnia: in paglia, terracotta, ricavata da tronchi cavi, disposta in modo orizzontale o verticale. Sommariamente, le arnie possono essere divise in due gruppi: a favo fisso, ovvero in unico contenitore, e a favi mobili, divise in più contenitori (nido-melario). Sono quest’ultime le arnie tutt’ora impiegate in apicoltura perché salvaguardano le colonie di api: le arnie fisse ad unico contenitore infatti, costringevano gli apicoltori ad estrarre il miele scacciando o uccidendo l’intera colonia. Il perfezionamento dell’arnia a favi mobili, o razionale, si deve a Lorenzo Lorraine Langstroth, pastore e inventore statunitense che, nel 1851, scoprì lo «spazio dell’ape» e riorganizzò la struttura delle arnie. Oggi, l’arnia più diffusa nel nostro paese è l’Italica-Carlini, basata sull’arnia di Langstroth, successivamente modificata da Johann Blatt e Charles Dadant e adottata, nel 1932, dal Congresso nazionale degli apicoltori come modello di riferimento per l’esercizio dell’apicoltura nel nostro Paese.
LA STRUTTURA
La struttura dell’arnia Italica-Carlini si può essenzialmente dividere in tre parti: il fondo, il nido e il melario. Vediamole nel dettaglio.
FONDO (A)
Il fondo (1) è la base di appoggio di tutta l’arnia. Le caratteristiche principali sono tre: un’apertura sulla base che consente l’utilizzo di un fondo mobile (3), per controllare indirettamente lo stato di salute delle api; una separatoreanti-varroa (2), che impedisce all’acaro parassita varroa destructor (molto diffuso tra le api) di risalire una volta caduto dal nido; una griglia metallica (4) posta all’ingresso del nido, che permette l’ingresso e l’uscita delle api bloccando l’accesso a insetti e animali di maggiori dimensioni.
NIDO (B)
Il nido è una scatola in legno al cui interno sono ospitati i telaini da nido (5), ovvero telaini mobili “armati” con fili di metallo su cui viene appoggiato il foglio cereo. Quest’ultimo è uno strato di cera in cui sono sovraimpresse cellette esagonali: serve per favorire la creazione del favo dove verranno allevate le api operaie. Il nido termina con la griglia escludi-regina (6) che impedisce alla regina, ma non alle operaie, di salire nel melario con la covata
MELARIO (C)
Il melario è un parallelepipedo di legno che viene posto sopra all’escludi regina. Come il nido, permettere l’appoggio dei telaini da melario (7). È qui che le api operarie, nei periodi di produzione, costruiscono i favi in cui depositare il miele che, lo ricordiamo, costituisce l’alimento della colonia durante la stagione invernale. Il melario è chiuso dal copri-favo (8), attraverso il quale l’apicoltore alimenta le api in caso di necessità, e il tetto (9), su cui viene fissata una lamiera metallica per garantire una maggiore protezione all’arnia contro gli agenti atmosferici.
The end of May means the end of acacia pollen collection and the beginning of acacia honey. Across Italy, beekeepers are starting the delicate work of extracting this precious ‘nectar’ from their hives. Honey from acacia is one of the first to be harvested each year and is widely appreciated for its gentle taste and golden colour.
Have you ever wondered how beekeeprs collect and harvest honey? Special hives that are grouped together in an apiary is central to the work and in this post, we are explaining how they function.
DEFINITION OF AN APIARY
An apiary is where manmade beehives are kept. Hives are enclosed structures that are designed with the purpose of raising a colony and then collecting the honey without harming the bees. An apiary is the place where either hobbyists or professional beekeepers house their hives for optimal performance. Natural hives are actually called nests and it is impossible to collect the honey without destroying it, whereas hives are structured with frames for the bees to build comb, just as they would in the nest and organize the colony into brooding cells and production cells.
ITALICA – CARLINI
The history of honey is full of various types of hives used by man: straw, terracotta, or even hollowed logs laid in strategic vertical/horizontal arrangements. Throughout most of this history it was nearly impossible to collect honey without destroying the hive and the colony. These traditional hives are called ‘fixed-frame’ since they were simply built to protect the colony while producing honey, but since there were no internal structures in the hive, the bees would build honeycomb in an uncontrolled way which led to its eventual destruction when it came time to collect. Overtime fixed-frame hives slowly developed into what today are called ‘mobile-frame’ hives, which meant beekeepers could both collect honey and ensure the continuation of their colony. A pioneer in this method of hive-building was Lorenzo Lorraine Langstroth, an American shepherd and inventor who built the first top-open box hive with moveable frames based on his study of ‘bee-space.’ Today, the most widely used hives in Italy are called Italica-Carlini and are based on the Langstroth hive with key modifications introduced by Johan Blatt and Charles Dadant. The immense success of these hives is clear. In 1932, the National Congress of Beekeepers chose the Italica-Carlini hive as the best in practice for Italian beekeepers and it hasn’t changed since!
THE STRUCTURE
The structure of Italica-Carlini hives can be divided into three basic parts: the lower section, the boxes and the upper section.
LOWER SECTION (A)
The lower section (fig.1) provides the foundation of the entire hive as well as the main entrance/exit for the bees. This section can also be broken down into the three main parts: the bottom board which provides the bottom closure of the hive and has an extended ‘landing board’ where the bees can enter or exit the hive (fig. 3), a verroa destructor which functions as a separator between the hive and harmful varroa mites (a common pest to bees) (fig.2) and lastly, a metal grid (fig.4) that is placed at the entrance of the boxes that stops bigger bugs and animals from entering the hive.
BOXES (B)
The box or boxes can be best described as the nest of the hive. Each box houses between 8-10 frames and foundations (fig.5). The frames are generally made of wood and the foundation is a waxed sheet of paper with an etched comb design that are mounted with wire into the frame. These foundations are used to aid the bees in the creation of honeycomb where the eggs are laid and honey is stored. In this hive system, the box (or multiple boxes if the colony is large) is generally used as the brooding nest as it is warmer, which is essential to survival of the queen and the eggs. The last frame in this system is designed with a specific end frame (fig. 6) that allows worker bees, but not the queen, to ascend into the upper section where they store honey.
UPPER SECTION (C)
This is a secondary, shallower wooden box that rests on top of the nesting box and also has frames and foundations (fig.7). The queen is not able to access this section of the hive to ensure that no eggs are laid in the comb, where they are less prone to survive. This is essentially where all the honey is stored. Honey is basically a bee’s food, and so it is important that they have enough of a supply of it in the comb throughout the winter, but if the production season was particularly difficult, the beekeeper can feed the bees. This is done with the hive inner cover (fig.8) which has a hole cut out where a feeder can be placed if necessary. The entire hive is capped with a top cover (fig.9) which is usually made of metal to provide the best protection of the hive throughout the winter.
A fine maggio termina la raccolta del miele d’acacia, una delle qualità più conosciute, utilizzate e apprezzate, nonché una delle prime ad essere raccolte. In tutta Italia, delicatamente, gli apicoltori cominciano a estrarre il prezioso “nettare” dalle arnie.
Vi siete mai chiesti come è fatta un’arnia e come funziona questo strumento di lavoro? Ve lo spieghiamo in questo post.
UNA DEFINIZIONE DI ARNIA
L’arnia è una struttura artificiale creata dall’uomo per facilitare la crescita di una colonia di api e la successiva raccolta del miele. Un’arnia accoglie fino a 90 mila individui ed è un microcosmo razionale e organizzato: il suo compito principale è quello di dividere la zona della covata (nido) da quella della produzione e stoccaggio del miele (melario), al fine di poter estrarre i favi che lo contengono senza danneggiare le api.
L’ITALICA-CARLINI
La storia del miele ci ha consegnato molti tipi di arnia: in paglia, terracotta, ricavata da tronchi cavi, disposta in modo orizzontale o verticale. Sommariamente, le arnie possono essere divise in due gruppi: a favo fisso, ovvero in unico contenitore, e a favi mobili, divise in più contenitori (nido-melario). Sono quest’ultime le arnie tutt’ora impiegate in apicoltura perché salvaguardano le colonie di api: le arnie fisse ad unico contenitore infatti, costringevano gli apicoltori ad estrarre il miele scacciando o uccidendo l’intera colonia. Il perfezionamento dell’arnia a favi mobili, o razionale, si deve a Lorenzo Lorraine Langstroth, pastore e inventore statunitense che, nel 1851, scoprì lo «spazio dell’ape» e riorganizzò la struttura delle arnie. Oggi, l’arnia più diffusa nel nostro paese è l’Italica-Carlini, basata sull’arnia di Langstroth, successivamente modificata da Johann Blatt e Charles Dadant e adottata, nel 1932, dal Congresso nazionale degli apicoltori come modello di riferimento per l’esercizio dell’apicoltura nel nostro Paese.
LA STRUTTURA
La struttura dell’arnia Italica-Carlini si può essenzialmente dividere in tre parti: il fondo, il nido e il melario. Vediamole nel dettaglio.
FONDO (A)
Il fondo (1) è la base di appoggio di tutta l’arnia. Le caratteristiche principali sono tre: un’apertura sulla base che consente l’utilizzo di un fondo mobile (3), per controllare indirettamente lo stato di salute delle api; una separatoreanti-varroa (2), che impedisce all’acaro parassita varroa destructor (molto diffuso tra le api) di risalire una volta caduto dal nido; una griglia metallica (4) posta all’ingresso del nido, che permette l’ingresso e l’uscita delle api bloccando l’accesso a insetti e animali di maggiori dimensioni.
NIDO (B)
Il nido è una scatola in legno al cui interno sono ospitati i telaini da nido (5), ovvero telaini mobili “armati” con fili di metallo su cui viene appoggiato il foglio cereo. Quest’ultimo è uno strato di cera in cui sono sovraimpresse cellette esagonali: serve per favorire la creazione del favo dove verranno allevate le api operaie. Il nido termina con la griglia escludi-regina (6) che impedisce alla regina, ma non alle operaie, di salire nel melario con la covata
MELARIO (C)
Il melario è un parallelepipedo di legno che viene posto sopra all’escludi regina. Come il nido, permettere l’appoggio dei telaini da melario (7). È qui che le api operarie, nei periodi di produzione, costruiscono i favi in cui depositare il miele che, lo ricordiamo, costituisce l’alimento della colonia durante la stagione invernale. Il melario è chiuso dal copri-favo (8), attraverso il quale l’apicoltore alimenta le api in caso di necessità, e il tetto (9), su cui viene fissata una lamiera metallica per garantire una maggiore protezione all’arnia contro gli agenti atmosferici.
The end of May means the end of acacia pollen collection and the beginning of acacia honey. Across Italy, beekeepers are starting the delicate work of extracting this precious ‘nectar’ from their hives. Honey from acacia is one of the first to be harvested each year and is widely appreciated for its gentle taste and golden colour.
Have you ever wondered how beekeeprs collect and harvest honey? Special hives that are grouped together in an apiary is central to the work and in this post, we are explaining how they function.
DEFINITION OF AN APIARY
An apiary is where manmade beehives are kept. Hives are enclosed structures that are designed with the purpose of raising a colony and then collecting the honey without harming the bees. An apiary is the place where either hobbyists or professional beekeepers house their hives for optimal performance. Natural hives are actually called nests and it is impossible to collect the honey without destroying it, whereas hives are structured with frames for the bees to build comb, just as they would in the nest and organize the colony into brooding cells and production cells.
ITALICA – CARLINI
The history of honey is full of various types of hives used by man: straw, terracotta, or even hollowed logs laid in strategic vertical/horizontal arrangements. Throughout most of this history it was nearly impossible to collect honey without destroying the hive and the colony. These traditional hives are called ‘fixed-frame’ since they were simply built to protect the colony while producing honey, but since there were no internal structures in the hive, the bees would build honeycomb in an uncontrolled way which led to its eventual destruction when it came time to collect. Overtime fixed-frame hives slowly developed into what today are called ‘mobile-frame’ hives, which meant beekeepers could both collect honey and ensure the continuation of their colony. A pioneer in this method of hive-building was Lorenzo Lorraine Langstroth, an American shepherd and inventor who built the first top-open box hive with moveable frames based on his study of ‘bee-space.’ Today, the most widely used hives in Italy are called Italica-Carlini and are based on the Langstroth hive with key modifications introduced by Johan Blatt and Charles Dadant. The immense success of these hives is clear. In 1932, the National Congress of Beekeepers chose the Italica-Carlini hive as the best in practice for Italian beekeepers and it hasn’t changed since!
THE STRUCTURE
The structure of Italica-Carlini hives can be divided into three basic parts: the lower section, the boxes and the upper section.
LOWER SECTION (A)
The lower section (fig.1) provides the foundation of the entire hive as well as the main entrance/exit for the bees. This section can also be broken down into the three main parts: the bottom board which provides the bottom closure of the hive and has an extended ‘landing board’ where the bees can enter or exit the hive (fig. 3), a verroa destructor which functions as a separator between the hive and harmful varroa mites (a common pest to bees) (fig.2) and lastly, a metal grid (fig.4) that is placed at the entrance of the boxes that stops bigger bugs and animals from entering the hive.
BOXES (B)
The box or boxes can be best described as the nest of the hive. Each box houses between 8-10 frames and foundations (fig.5). The frames are generally made of wood and the foundation is a waxed sheet of paper with an etched comb design that are mounted with wire into the frame. These foundations are used to aid the bees in the creation of honeycomb where the eggs are laid and honey is stored. In this hive system, the box (or multiple boxes if the colony is large) is generally used as the brooding nest as it is warmer, which is essential to survival of the queen and the eggs. The last frame in this system is designed with a specific end frame (fig. 6) that allows worker bees, but not the queen, to ascend into the upper section where they store honey.
UPPER SECTION (C)
This is a secondary, shallower wooden box that rests on top of the nesting box and also has frames and foundations (fig.7). The queen is not able to access this section of the hive to ensure that no eggs are laid in the comb, where they are less prone to survive. This is essentially where all the honey is stored. Honey is basically a bee’s food, and so it is important that they have enough of a supply of it in the comb throughout the winter, but if the production season was particularly difficult, the beekeeper can feed the bees. This is done with the hive inner cover (fig.8) which has a hole cut out where a feeder can be placed if necessary. The entire hive is capped with a top cover (fig.9) which is usually made of metal to provide the best protection of the hive throughout the winter.
Giuseppe Brezzo, seconda generazione della famiglia, ci racconta la straordinaria avventura del padre Gervasio, pioniere del miele piemontese e dell’apicoltura nomade: tra studio, fatica e dedizione alla sua terra.
Giuseppe Brezzo
Il miele nel sangue. Nelle punture delle api a cui, dopo un po’, fai l’abitudine. Il miele sulle spalle. La cui pelle diventa come cuoio dopo che, per tutta la notte, carichi e scarichi le arnie per raggiungere i prati della Valle Maira, dove far bottinare le api sui fiori di montagna. Il miele nelle gambe. Quando per anni imbracci la bicicletta e pedali da Monteu Roero a Reaglie, tra Torino e Pino Torinese, ad ascoltare le lezioni di Don Giacomo Angeleri, il primo maestro di apicoltura in Piemonte.
La famiglia Brezzo ha un rapporto speciale con il miele. Una storia di sacrifici, di passione, di attese, di sfide. Soprattutto di fatica e di imprenditoria volta a valorizzare e promuovere un prodotto che, poco più di 50 anni fa, era tenuto in poca considerazione, utilizzato per curare un raffreddore, al più per lenire gli effetti del mal di gola.
«Ho “giocato” con le api fin dai primi anni della mia infanzia. Mi pungevano in continuazione perché imitavo mio padre che curava gli alveari in un prato vicino a casa», racconta GiuseppeBrezzo, figlio di Gervasio, fondatore, nel 1948, dell’omonima azienda. «Dopo la guerra, la mia famiglia aveva deciso di affiancare al lavoro della campagna e delle vigne – quasi distrutte dalla fillossera – una produzione di miele del Roero. Era un mezzo come altri per uscire dalla miseria di quegli anni, per integrare il salario. Quando vedevo mio padre alzare i telaini pieni di miele e sorridere riconoscevo che il suo, più che un lavoro, era la passione che avrebbe voluto tramandare alla sua famiglia e il nostro progetto per il futuro».
Non tutti però credevano nelle potenzialità del miele.
«Ricordo che mio padre, quando volle cominciare sul serio a fare apicoltura, dovette nascondere i telai dalla zia, perché non li vedesse il nonno. Solo dopo avergli dimostrato che si poteva guadagnare con il miele poté operare alla luce del sole: all’epoca ogni investimento che non fosse in agricoltura o nel solco della tradizione era considerato una spesa inutile».
La passione, però, non basta. Il miele e le api sono un’azienda complessa da far funzionare: accanto alla pratica bisogna dotarsi di una seria preparazione teorica.
«Non c’erano né scuole né maestri di apicoltura nel Roero. Per studiare, mio padre si alzava di notte, la domenica, e raggiungeva in bici Reaglie, a 70 km di distanza, dove teneva messa Don Giacomo Angeleri. Sacerdote e formidabile divulgatore, chiuso il messale, Angeleri accoglieva apicoltori da tutto il Piemonte mostrando loro tecniche e segreti per razionalizzare l’apicoltura, aumentare la qualità del miele e professionalizzare gli operatori. Svecchiava le conoscenze e le pratiche superstiziose attraverso metodi sperimentali e scientifici, aveva scritto un libro, Cinquant’anni con le api e gli apicoltori, tutt’ora un’opera fondamentale per chi si avvicina a questa professione».
A Don Angeleri si deve anche la spinta a cominciare il primo e pioneristico nomadismo delle api.
«Nessuno praticava il nomadismo delle api perché nessuno aveva ancora pensato di seguire le fioriture per produrre mieli di diversa qualità. Don Angeleri aveva un centro sperimentale a Pragelato e aveva mostrato a mio padre come portare in montagna le api e farle bottinare. Il primo camion, con 15 famiglie, fu salutato come una pazzia a Monteu Roero. Si caricava di notte, si legava tutto con delle corde, si partiva per la montagna e, prima di colazione, le arnie erano già state scaricate e piazzate nei campi. Festeggiavamo con pane, salame e qualche bicchiere di vino. Ma la vera fatica era seguire la produzione di miele lungo le stagioni. Ogni due o tre settimane, Gervasio si caricava lo smielatore sulla bicicletta e raggiungeva le arnie per raccogliere il miele appena prodotto. Solo più tardi decidemmo di attrezzare un laboratorio per la raccolta e la lavorazione in loco».
Dove portavate le api?
A Chialvetta, piccola frazione di Acceglio, in Valle Maira. Un paradiso incontaminato di prati e pascoli di montagna. Dagli anni ’50 è ancora oggi il nostro centro produttivo per il miele di montagna e il miele di rododendro.
Perché non tenevate le api in quota?
Allevare le api in montagna è estremamente difficile. Mentre in primavera e in estate trovano il clima e la flora ideale per bottinare, in inverno le temperature sono troppo rigide per la loro sopravvivenza. Il nomadismo apistico è simile alla transumanza: la bella stagione serve per “pascolare” le api seguendo le fioriture dei campi. D’inverno è necessario spostarle in luoghi più caldi e accoglienti, dove possono essere nutrite e accudite con maggiore facilità.
Quali sono le maggiori differenze fra l’apicoltura di un tempo e quella contemporanea?
A livello di tecniche, non vi sono grandi differenze. Si utilizzano la stessa cura, le stesse attenzioni, gli stessi strumenti, anche se oggi, in parte, sono meccanici e non più manuali. Oggi la quantità di miele si è tuttavia ridotta a causa dei mutamenti climatici. Le stagioni hanno temperature anomale e variabili: gelate improvvise in primavera o inverni troppo caldi disorientano le api e minano la loro produttività. Il paradosso è che un tempo si raccoglieva tanto miele da non riuscire a venderlo, mentre oggi la richiesta supera la stessa capacità di produzione. Siamo contenti, la riscoperta del miele come prodotto d’eccellenza è anche il frutto dei nostri sacrifici. Ma l’apicoltore di oggi è chiamato a una sfida: difendere la stessa sopravvivenza delle api per continuare a produrre un miele di qualità, puro, incontaminato, uniflorale, espressione viva del suo territorio d’origine.
Qual è l’aspetto dell’apicoltura che le ha regalato e continua a regalarle più soddisfazioni?
Credo che la risposta sia scritta nella storia stessa della famiglia Brezzo. Mio padre Gervasio è stato un pioniere, uno che ha creduto nel proprio territorio e nella qualità dei suoi prodotti. Dopo la guerra non si è lottato solo per la sopravvivenza, ma anche contro lo spopolamento: i giovani abbandonavano le colline per lavorare nell’industria automobilistica di Torino, allora in piena espansione. Mio padre ha regalato alla nostra famiglia una ragione per restare e per lavorare nel Roero. Lo ha fatto riscoprendo tradizioni e valori insiti nella sua stessa terra, prendendo ciò che c’era e – senza badare alla fatica e alle difficoltà – trasformandolo in un’eccellenza oggi riconosciuta e apprezzata in Italia e nel mondo.
Battista Cauda e Gervasio Brezzo vicino alle arnie di montagna
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Giuseppe Brezzo, who belongs to the second generation of his family, recounts the extraordinary adventure of his father Gervasio, a pioneer of Piedmont honey and nomadic beekeeping: his studies, fatigue and dedication to this land.
Giuseppe Brezzo
Honey in the blood. In the bee stings, something you get used to after a while. Honey on the shoulders. Whose skin resembles hide leather following an entire night spent loading and unloading hives bound for the meadows of the Maira Valley where the bees forage on mountain flowers. Honey in the legs. When, for years on end, astride a bike, you have peddled from Monteu Roero to Reaglie, from Turin and Pino Torinese, to listen to the lessons held by Don Giacomo Angeleri, the first beekeeping expert in Piedmont.
The Brezzo family has a special relationship with honey. A story consisting of sacrifice, passion, waiting and challenges. Above all, hard work and entrepreneurship focused on valorising and promoting a product which, just over 50 years ago, was considered to be of scarce value, used merely to cure a cold or to relieve a sore throat.
«I have “played” with bees ever since being a toddler. They used to sting me all the time because I copied my father who looked after the hives in a meadow close to our house», recounts Giuseppe Brezzo, son of Gervasio, who founded the eponymous firm in 1948. «After the war, my family had decided to integrate their farming and vineyard activities – almost destroyed by the phylloxera – with a Roero honey production. It was a way as good as any other to combat the poverty of those years and earn a little extra money. When I saw my father lift up the frames and smile, I realized that this activity was not just a job, but a real passion he would have liked to pass down to his family as our project for the future».
However, not everyone believed in the potential of honey.
«I remember that my father, when he decided to go in for beekeeping in a serious way, had to hide the frames at my aunt’s house to prevent my grandfather from seeing them. Only after proving he could make a profit out of honey, was he able to do it openly: at the time, any investment that was not made in farming or in traditional activities was considered to be a waste of resources».
Enthusiasm, however, is not enough. Honey and bees are a complex business to run: the practical side of the activity has to be backed up by a sound theoretical knowledge.
«There were no beekeeping schools or teachers in the Roero area. In order to study, my father got up during the night, on Sundays, and went by bike to Reaglie, 70 km away, where Don Giacomo Angeleri said mass. A priest and a fantastic teacher, when Angeleri closed his missal, he welcomed beekeepers from all over Piedmont, showing them the techniques and secrets to rationalize their activity, to heighten the quality of honey and to provide operators with professional training. He updated existing knowledge and debunked old wives’ tales by using experimental and scientific methods. He also wrote a book entitled Cinquant’anni con le api e gli apicoltori (Fifty years with bees and beekeepers), which is still an essential textbook for anyone approaching this profession».
It is also thanks to Don Angeleri that the first pioneering nomadic beekeeping began.
«No one practised nomadic beekeeping because it had not yet occurred to anyone to follow the various flowerings in order to produce different varieties of honey. Don Angeleri ran an experimental centre at Pragelato and had shown my father how to take the bees into the mountains to forage. The first truck, with 15 families, was judged to be pure folly at Monteu Roero. They were loaded during the night and everything was secured with ropes before setting off for the mountains. Before breakfast, the hives had already been unloaded and positioned in the fields. We celebrated with bread, salami and a few glasses of wine. But the toughest job was that of following the honey production through the seasons. Every two or three weeks, Gervasio loaded the honey extractor onto his bicycle and went to the hives to collect the newly produced honey. It was only later that we decided to equip a laboratory for collection and processing on site».
Where did you take the bees?
To Chialvetta, a small hamlet of Acceglio, in the Valley Maira. An uncontaminated paradise of mountain meadows and pastures. Since the 50’s, this has been and continues to be our production centre for mountain honey and rhododendron honey.
Why did you not keep the bees at that altitude?
It is extremely difficult to breed bees in the mountains. While they find the ideal climate and flora for foraging in spring and summer, they are unable to survive the harsh temperatures of winter. Nomadic beekeeping is similar to transhumance: the warm seasons are for putting the bees out to “pasture” as they follow the flowering periods in the fields. In the winter time, it is necessary to move them to warmer and more comfortable places where they can be fed and looked after more easily.
What are the main differences between contemporary beekeeping and that of the past?
Technically speaking, there are no great differences. The same care and attention, the same equipment, even though present-day equipment is mechanical rather than manual. Today, the honey yield has decreased owing to climate change. Seasonal temperatures are anomalous and variable: sudden spells of frost in spring or excessively warm winters confuse the bees and negatively affect their productivity. The paradox is that, in the past, they used to collect more honey than could be sold, while today’s demand exceeds the production capacity. We are pleased to say that the rediscovery of the value of honey is also fruit of our hard work. But today’s beekeeper is facing a serious challenge: that of safeguarding the bees’ survival in order to continue producing a quality honey that is pure, uncontaminated, mono floral and a living expression of its land of origin.
Which particular aspect of beekeeping has given you and continues to give you most satisfaction?
I think the answer lies in the Brezzo family history. My father Gervasio was a pioneer, one who believed in his land and in the quality of his products. After the war, he not only struggled to survive but also opposed depopulation caused by young people leaving the hills to work in Turin’s automotive industry, which was then in rapid expansion. My father gave our family a reason for staying and working in the Roero area. He did so, by rediscovering the traditions and values typical of this land, by taking what existed – despite the fatigue and hardship – and transforming it into an excellent product now acclaimed and sought after in Italy and abroad.
Brezzo produce moltissime varietà di mieli italiani, ma seleziona anche alcune chicche provenienti dall’estero: mieli rari, dalle proprietà uniche. Se è vero che ogni inizio d’anno porta con sé novità e scoperte, aprite le porte della vostra dispensa a questi prodotti davvero particolari e sperimenterete nuovi modi di declinare la dolcezza!
MIELE DI ULMO
Il miele di Ulmo è prodotto dai fiori dell’albero dell’Eucryphia Cordifolia – volgarmente chiamato Ulmo – originario del Cile. Si tratta di un grande arbusto sempreverde che può crescere fino ai 30 metri di altezza. Fa parte delle foreste pluviali temperate che crescono a Valdivia nella Regione dei Laghi. Da gennaio a marzo l’Ulmo produce grandi fiori bianchi simili alla camelia. Durante la fioritura, nelle aree dove è diffuso, le pendici delle montagne si ricoprono di un manto di meravigliosi fiori bianchi che ricorda la neve.
Un gusto unico
Quello di Ulmo è un miele dalla cristallizzazione sottile ed omogenea, caratterizzato da una consistenza molto cremosa. Di colore ambrato, all’olfatto offre sentori fruttati e di erbe officinali. L’aspetto aromatico rispecchia il profumo, ricordando delicati sentori vegetale di frutta matura, con note di anice, gelsomino, vaniglia, chiodi di garofano e caramello.
Un antibatterico naturale
Come il miele di Manuka, anche quello di Ulmo è dotato di proprietà antibatteriche. Studi condotti presso l’Università Pontificia di Santiago del Cile hanno dimostrato che il miele di Ulmo aiuta a combattere batteri insidiosi come lo Stafilococco e l’Escherichia Coli, che a volte sono resistenti agli antibiotici. In vitro si è osservato che il miele di Ulmo è in grado di inibire la crescita di alcuni batteri patogeni e possiede un’aziona fungicida e fungostatica.
Anche per questo miele la dose consigliata di assunzione è un cucchiaino o due al giorno, preferibilmente al mattino.
MIELE DI CAFFÈ DEL BRASILE
Il miele di Caffè è piuttosto raro e ricercato. Proviene dal Brasile (ma si torva anche in Colombia), dove le arnie vengono posizionate vicino alle piantagioni di caffè e si nutrono esclusivamente del nettare e del polline di queste piante. Di colore tendente all’ambrato, una volta cristallizzato assume una sfumatura più chiara e una consistenza cremosa. Il sapore è davvero particolare ed è la nota che lo distingue da tutte le altre varietà. Il miele di caffè contiene infatti piccole quantità di caffeina ed altre sostanze. Alla nota dolce e tipica del miele, aggiunge un retrogusto di caffè e orzo, delicato e persistente. Una vera chicca per appassionati.
Le api fanno bene al caffè (e a chi lo coltiva).
Uno studio dell’Istituto Smithsonian per le ricerche tropicali ha dimostrato che la presenza di arnie vicino alle piantagioni di caffè contribuisce ad un aumento di produzione. Quando sono presenti gli insetti impollinatori, il peso delle bacche di caffè aumenta del 7%, un valore che arriva fino al 25% se a impollinare le piante sono le api. Il miele di caffè, infine, se adeguatamente diffuso, potrebbe diventare un’ottima integrazione di reddito per le cooperative di raccoglitori, contribuendo, nel contempo, a salvaguardare la biodiversità.
MIELE DI LAVANDA
Concludiamo questa carrellata di mieli rari e internazionali con il miele di Lavanda. Raccolto tra giugno e luglio, è senza dubbio uno dei mieli più pregiati che si possono trovare sul mercato. Il colore è giallo chiaro e la cristallizzazione è molto rapida e a cristalli fini, molto piacevoli al palato in quanto di consistenza soffice e cremosa.
Un sapore delicato
La nota caratteristica di questo miele è data dal profumo, che ricorda il fiore della lavanda e dal sapore delicatissimo e cremoso. Un miele che – visto lo spiccato profilo aromatico – si abbina a formaggi di media stagionatura: il Montasio, i caprini, ma anche il pecorino sardo e siciliano. E’ anche ottimo spalmato sul pane o su una fetta biscottata per una colazione carica di gusto e profumo.
Brezzo produces many varieties of Italian honey, but also selects a number of gems from other countries – rare honeys with unique properties. If it’s true that the start of every new year brings changes and discoveries, make room in your pantry for these truly special new products and enjoy new ways of expressing sweetness!
ULMO HONEY
Ulmo honey derives from the flowers of the Eucryphia Cordifolia tree – commonly called Ulmo – native to Chile. It is a large evergreen tree that can reach 30 metres in height. It grows in the Valdivian temperate rain forests around the Chilean Lake District. From January to March, the Ulmo produces large white flowers similar to camellias. During blossom time, in areas where it is widespread, the slopes of the mountains are covered with a mantle of beautiful white flowers that looks like snow.
A unique flavour
Ulmo honey is characterized by fine crystallization and a very creamy consistency. Amber in colour and fragrant with hints of fruit and medicinal herbs, the aromatic profile mirrors the fragrance, recalling delicate hints of ripe fruit and aniseed, jasmine, vanilla, clove and caramel notes.
Naturally antibacterial
Like Manuka honey, Ulmo honey also has antibacterial properties. Studies carried out at the Pontifical University of Chile in Santiago have shown that Ulmo honey helps fight insidious bacteria such as Staphylococcus and Escherichia Coli, which are sometimes resistant to antibiotics. In vitro studies have shown that Ulmo honey is able to inhibit the growth of some pathogenic bacteria, and to have a fungicidal and fungostatic action.
The recommended dose of this honey is also a teaspoon or two a day, preferably in the morning.
BRAZILIAN COFFEE HONEY
Coffee honey is somewhat rare and sought-after. It comes from Brazil (but is also found in Columbia), where hives are situated close to coffee plantations, and the bees feed only on the nectar and pollen of these plants. Originally tending towards amber, it takes on a lighter colour and a creamy consistency once crystallized.
The flavour is truly unique since Coffee honey contains small quantities of caffeine and other substances, and is the factor that distinguishes it from all the other varieties. To the typically sweet note of honey, it adds a delicate and persistent aftertaste of coffee and barley. A real treat for aficionados.
Bees are good for coffee (and for those who grow it).
A study by the Smithsonian Institute for Tropical Research has shown that locating beehives near coffee plantations contributes to an increase in production. When insect pollinators are present, the weight of coffee beans increase by 7%, which can reach as much as 25% if the pollinators are bees. Finally, if adequately popularized, coffee honey could become an excellent additional income for coffee-picker cooperatives, and at the same time contribute to preserving biodiversity.
LAVENDER HONEY
We end this medley of rare, international honeys with Lavender honey. Gathered in Provence between June and July, it is without doubt one of the most sought-after honeys to be found on the market. Pale yellow in colour, crystallization is rapid with fine crystals, and the soft, creamy consistency is very agreeable to the palate.
A delicate flavour
This honey’s characteristic note comes from the fragrance, which recalls lavender flowers, and the delicate, creamy flavour. Given its distinctive aromatic profile, this honey pairs well with medium-mature cheeses – Montasio, Caprino, but also Sardinian and Sicilian Pecorino. It is also excellent spread on bread or a crispbread for a tasty, fragrant breakfast.
Conosciamo davvero il mondo delle api? Sapevate che la nostra relazione con questi laboriosi insetti risale a più di 9 mila anni fa? Che attraverso le api l’uomo ha imparato la tecnica della mummificazione? E cosa fanno le api d’inverno? Dedichiamo questo post a svelare alcune curiosità sulle api e a sfatare alcuni miti.
UN’ALLENAZA PREISTORICA
Tra le cooperazioni “socio-economiche” che si sono spontaneamente formate tra differenti specie animali, una delle più longeve è sicuramente quella instaurata tra uominieapi: la prima immagine iconografica che ne testimonia l’alleanza, cioè la raffigurazione di un alveare e di un cacciatore di miele – venne ritrovata nel 1921 sulla parete di Cueva della Araña – una grotta spagnola sita nella provincia di Valencia – e risale a circa 9000 anni fa. L’apicoltura vera e propria cominciò poco dopo, quando a seguito della rivoluzione del Neolitico l’essere umano passò dal nomadismo alla sedentarietà ed iniziò ad allevare le api dentro dei contenitori.
CHI HA DETTO CHE SENZA API LA VITA SULLA TERRA SI ESTINGUEREBBE?
«Se l’ape scomparisse dalla faccia della Terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita!»: questo celebre monito, attribuito nientedimeno che ad AlbertEinstein, comparve per la prima volta in un volantino che l’Unione Nazionale Apicoltori Francesi distribuì a Bruxelles durante una protesta, avvenuta nel 1994, contro la concorrenza – giudicata sleale – che il miele d’importazione faceva a quello transalpino. Tuttavia, non esistono fonti che confermino la paternità dell’aforisma al celebre scienziato: alcuni sostengono che la frase venne coniata da un entomologo americano che tuttavia la presentò come frutto dell’ingegno dello scopritore della relatività per darle più celebrità, altri invece affermano che fu suggerita dall’UNAF. Chiunque sia l’autore, il ruolo delle api nella salvaguardia della biodiversità è acclarato, l’impollinazione è uno dei fattori più importanti per lo sviluppo delle piante e sebbene non solo le api contribuiscano a questa funzione, di sicuro svolgono un ruolo fondamentale.
TUTANKHAMON E LE API
A proposito della sinergia tra esseri umani e api, è interessante notare come quest’ultime abbiano insegnato all’uomo la tecnica della mummificazione. Quando un animale che le api percepiscono come di grossa taglia (ad esempio lucertole, coleotteri e topi) invade l’alveare, esso viene ucciso a colpi di pungiglione: le api però non sono in grado di trasportarne la carcassa, per loro troppo pesante, fuori dal loro habitat e per evitare i possibili pericoli causati dalla decomposizione lo ricoprono di propoli; essendo un potente antibiotico, tale sostanza preserva l’ospite indesiderato trasformandolo in una mummia. Intorno al 4000 a.C. gli antichi Egizi si accorsero di questo fenomeno e ne fecero uso in campo medico: i sacerdoti lo usarono per mummificare le spoglie dei faraoni (la propoli infatti viene rilevata in tutte le mummie dell’antico Egitto, compresa quella di Tutankhamon che è giunta ai giorni nostri praticamente intatta), mentre i medici la impiegarono per trattare le infezioni della pelle, dell’apparato respiratorio e come cicatrizzante e disinfettante delle ferite.
LE API INVERNALI
L’arrivo dell’inverno, con i suoi freddi e il progressivo accorciamento delle ore di luce, viene percepito nitidamente anche dalle api, che in questa stagione entrano in una fase di riposo, quasi un letargo, che lo porta anche a raggrupparsi all’interno del nido, nella zona più riparata e calda e in diretta corrispondenza delle provviste – miele e polline – per formare il cosiddetto “glomere”; questa azione dura fino a quando la temperatura interna raggiunge i 20-22°C. Non tutti sanno però che le api che nascono in inverno, destinate a superare tale periodo rigido per far sopravvivere la famiglia, sono molto più longeve delle api che vengono al mondo in estate: mentre per le secondo la speranza di vita si aggira intorno alle tre settimane, le prime possono arrivare anche a raggiungere i tre mesi di esistenza. Ciò dipende da alcune differenze fisiologiche che maturano inevitabilmente quando la stagione calda volge al termine: fin dalla nascita, le api “invernali” vengono allevate con una quantità di polline superiore a quella prevista per le loro sorelle che hanno avuto i natali nel periodo primaverile o estivo. In conseguenza di ciò, avvicinandosi all’inverno, la maggior parte delle operaie vede svilupparsi le ghiandole ipofaringee e altri “corpi adiposi” che contengono, oltre al grasso, anche proteine: tali sostanze andranno a costituire delle vere riserve nutritive e si riveleranno decisive nell’assicurare alle api una maggiore longevità. Infine, tramite il meccanismo della trofallassi le api riescono, attraverso le loro linguette dette ligule, a scambiarsi il miele che servirà loro come carburante per far vibrare i muscoli pettorali (un procedimento analogo a quello utilizzato dalle colonie di pinguini, che devono sopravvivere anche a 50° sotto zero): questo è uno dei più brillanti esempi esistenti in natura di come un essere vivente, seppur in condizioni assolutamente proibitive, possa resistere tramite una proficua collaborazione con i suoi simili e l’interoecosistema.[:en]Do we really know much about the world of bees? Did you know that our relationship with these industrious insects dates back more than 9 thousand years? That Man learned the technique of mummification from bees? And what do bees do in winter? This post is devoted to revealing a number of fascinating facts, and debunking some myths about bees.
A PREHISTORIC ALLIANCE
One of the most enduring of all “socio-economic” partnerships that have formed spontaneously between different animal species is undoubtedly that established between manandbees. The earliest iconographic image testifying to this alliance, depicting a beehive and a honey gatherer, dates to about 9,000 year ago and was found in 1921 on the wall of Cueve della Araña, a group of caves in Valencia, eastern Spain. Beekeeping proper began shortly after, when following the Neolithic revolution, human beings went from being nomadic hunter-gatherers to sedentary agriculturalists, and began to raise social bees inside containers.
WHO SAID THAT WITHOUT BEES LIFE ON EARTH WOULD BECOME EXTINCT?
“Ifthe bee disappearedoff the face of the Earth, man would only have four years left to live!” This famous quote, attributed to none other than Albert Einstein, appeared for the first time in a leaflet distributed by the National Union of French Beekeeping during a demonstration held in Brussels in 1994 to protest what was considered unfair competition from imported honeys. However, there are no sources confirming the famous scientist’s paternity of the aphorism. Some say the phrase was coined by an American entomologist who presented it as that of the discoverer of relativity to give it more celebrity, while others claim it was entirely invented by the UNAF.
Whoever was the author, they overestimated the role of bees in safeguarding biodiversity. Before Christopher Columbus and European colonisation, there were no bees in America, and the same could be said for Oceania. These insects are an import from the Old Continent, and the history of pre-Columbian and Paleo-Australian civilisations shows that although life without bees would be more difficult for biodiversity, it would not be impossible.
TUTANKHAMUN AND BEES
With regard to the synergy between human beings and bees, it is interesting to note how the latter taught man the technique of mummification. When an animal perceived by the bees to be large (lizards, beetles or mice for example) invades the hive, it is stung to death. However, the carcass is too heavy for the bees to carry out of their habitat, and to protect against prevent possible dangers from decomposition, they cover it with propolis, which being a powerful antibiotic, preserves the invader’s corpse and transforms it into a mummy.
Around 4000 B.C., the Ancient Egyptians discovered this phenomenon, and made use of it for medical purposes. The priests used propolis to mummify the remains of the Pharaohs (propolis has been detected in all Ancient Egyptian mummies, including that of Tutankhamun, which has survived to this day almost intact), while physicians used it to treat infections of the skin and respiratory system, and to cicatrize and disinfect wounds.
BEES IN WINTER
The coming of winter with its cold and reduced daylight hours is also sharply felt by bees, who enter a phase of repose, almost hibernation, during this season. They cling tightly together in the warmest, most sheltered part of the nest, close to the stored honey and pollen, forming the so-called “winter cluster”, which continues until the internal temperature reaches 20-22°C. However, not everyone knows that the bees hatched in winter to get the colony through winter are much longer-lived than those hatched in the summer. While the life span of the latter is around three weeks, the former can live as long as three months. This depends on certain physiological differences that inevitably occur naturally when summer comes to an end. From the time they hatch, “winter” bees are reared with a greater quantity of pollen than that provided for those hatched in spring or summer.
Consequently the hypopharyngeal glands and other “adipose” tissues of most worker bees, which contain protein as well as fat, begin to enlarge as winter approaches. These substances make up food reserves which will be decisive in ensuring the bees have an unusually long lifespan. Finally, through a process known as trophallaxis, bees are able to use their tongues to directly transfer to one another the honey that will serve as fuel to vibrate their flight muscles. (Similarly, colonies of penguins who have to survive temperatures as low as minus 50° also huddle closely together). This is one of the most brilliant examples in nature of how a living being is able to survive absolutely prohibitive conditions through fruitful cooperation with its fellows and the entire ecosystem.
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